Gianni Minà: «Maradona mi obbligò a filmare le sedute dallo psicologo, ma ho distrutto tutto. Rimpiango le interviste mancate a Mandela e McCartney»

Gianni Minà: «Maradona mi obbligò a filmare le sedute dallo psicologo, ma ho distrutto tutto. Rimpiango le interviste mancate a Mandela e McCartney»

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di Roberta Scorranese

Il giornalista Gianni Minà si racconta: l’incontro con i Beatles, l’amicizia con Fidel Castro

Che cosa c’è da dire ancora sulla vita di Gianni Minà, oggi 84 anni, che non sia stato magistralmente riassunto nella battuta di Fiorello «Eravamo io, Bob De Niro, Fidel Castro e Gabo Márquez»? Ben poco. O forse no. Perché giornalisti come Minà hanno il dono di trasformare ogni racconto in una piccola epica del quotidiano, illuminando ogni volta un particolare decisivo, come sapevano fare gli impressionisti. Suoi sono programmi storici come Blitz o Alta Classe, suoi documentari su personaggi come Che Guevara, Muhammad Ali, Fidel Castro.

Certo, quella foto memorabile che la ritrae assieme a Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Ali e Gabriel García Márquez sta lì a dimostrare una vita-carosello di incontri straordinari. Può dirsi felice a questo punto della sua carriera? E che cosa vuol dire per lei la felicità?

«C’è un uso improprio, anzi un abuso della parola “felicità”. Implica uno stato di grazia che quasi mai si raggiunge. Possono esserci degli attimi, la nascita di una figlia, lo scoop inarrivabile, lo sconcerto di pensare “è successo proprio a me”. Ma se uno si sofferma troppo sulla propria felicità perde di vista gli altri, il mondo. La nostra identità si esprime attraverso di loro, in un rapporto virtuoso. Invece da troppi decenni ci hanno voluto inculcare la balla che la felicità si raggiungere consumando tutto. Se guardo indietro posso dirmi soddisfatto della mia carriera. Ma non l’ho mai considerata “carriera”. È stata, lo è tutt’ora, parte importante della mia vita, un atteggiamento interiorizzato da quando sono un adolescente, sempre alla ricerca di persone da conoscere, da ascoltare, sempre alla ricerca di fatti cui valga la pena raccontare» .

Nato a Torino, nella sua bella autobiografia, Storia di un boxeur latino (minimum fax), lei rievoca l’esperienza di sfollato a Brusasco.

«Non ho molti ricordi, perché ero piccolo. Ma ho imparato a ricordarli soprattutto attraverso mio fratello, poco più grande di me, il cui breve sequestro di mia madre lo ha ferito nel profondo. Mi è rimasta la paura, l’orrore per i gesti violenti. Non so gestirli, né ho mai reagito ad attacchi verbali. Non riesco, mi blocco. Ma sono immune dal risentimento. Se dovessi pensare all’unica qualità che ho, è proprio questa, non provare risentimento. Ho visto troppe persone consumarsi dalle amarezze».

Poi Roma, la carriera giornalistica, la Rai. Le trasmissioni di successo. Ma non tutti sanno che per un breve periodo della sua giovinezza lei ha lavorato con il generale De Lorenzo, quello del Piano Solo del 1964, secondo molti un tentativo di colpo di Stato (anche se questa finalità è stata esclusa dalle indagini). Che clima si respirava all’epoca?

«Io ero molto giovane, già preso dal lavoro, facevo i servizi al telegiornale, avevo la percezione di essere già arrivato, così giovane. Sapevo però che incombeva su di me l’obbligo della leva, mio padre era scomparso, mio fratello l’aveva schivata, io forse no. Ma tutti in Rai mi dicevano che se fossi partito militare sarebbe sceso il diluvio. E infatti, partii. Fu una delle rare esperienze spiacevoli della mia vita, il generale De Lorenzo, era un uomo sfuggente, non ti guardava mai in faccia, godeva a umiliare i ragazzi e io non ero escluso dal trattamento. Mi misero nell’Ufficio Stampa del Ministero della Difesa. Andavo alle sei del mattino, a lavorare, come mi aveva insegnato Ghirelli. Compilavo la rassegna stampa e gliela portavo. Lui alzava appena la testa, sistemava tutto sulla sua scrivania e ogni mattina, mi redarguiva: “Hai la cravatta fuori posto”, “Gli scarponi non sono lucidi”, e così via».

E vennero i formidabili anni Sessanta.

«In una taverna romana, eravamo io, Toquinho, Ungaretti e Vinícius de Moraes. Ungaretti recitava poesie con la sua voce di cartavetrata. Poi continuava Vinícius, in portoghese. Erano cene interminabili. Ungaretti era già vecchio ma, accanto, aveva sempre belle donne. João Gilberto, invece, lo avevo visto suonare per la prima volta al tendone della Bussola. Tra gli spettatori fissi che ogni sera venivano a osannarlo c’era anche Gianni Agnelli, l’avvocato. D’estate si finiva in Versilia perché da lì passavano i più grandi campioni della nuova musica, dal rock’n’roll al samba, ma si viveva anche delle trovate estemporanee di Franco Califano, er Califfo, pronto a dare lezioni sul come conquistare una donna attraverso i versi di una canzone e non solo».

Lei ha vissuto i concerti epici.

«Mi ero perso Woodstock, non potevo perdermi Wight (edizione 1970, ndr). Il biglietto d’entrata costava solo tre sterline. Solo tre sterline per Joni Mitchell, Miles Davis, Jethro Tull, Leonard Cohen… Nella notte avevo visto l’esibizione dei Doors e sentito Jimi Hendrix interpretare prima If 6 Was 9 e poi stravolgere con la sua chitarra l’inno americano. La sera dopo l’intervento di Jimi Hendrix, Georgina (la prima moglie di Minà, ndr) era venuta trafelata a dirmi: “Dietro le quinte c’è un nero che si sente male. Cercano un’automobile, possiamo prestargli quella che abbiamo affittato noi?” Era proprio Jimi Hendrix. Sia per lui che per Jim Morrison sarebbe stata l’ultima esibizione».

Lei ha incontrato molti dei protagonisti del Novecento. Da Fidel Castro a Maradona. Ma vorrei un ricordo dei Beatles.

«Eravamo ragazzini, tutti quanti. Io avevo più feeling con Paul Mc Cartney e il legame con lui mi permise di incontrarlo nell’89, in occasione del suo tour da solista perché avrei voluto imbastire un documentario su di lui prodotto da Mimmo D’Alessandro (con cui poi anni dopo avrei fatto, insieme a Sergio Bernardini, il programma registrato alla Bussoladomani “Alta Classe”). Ma i rispettivi impegni ce lo impedirono. Questo errore ancora lo rimpiango».

Una carriera è fatta anche di occasioni mancate, passi falsi.

«Ancor più rimpiango la mancata intervista a Nelson Mandela, dove ci rincorremmo per due anni e poi non se ne fece più nulla».

Mina è ancora una sua grande amica?

«È una persona amabile, adorabile. Con una personalità e sensibilità fuori dagli schemi. Ci conosciamo dal ’61, non ci frequentiamo più da tempo e fino a prima della pandemia ci sentivamo al telefono, ma l’affetto e la stima rimangono immutabili. Un’artista, a parer mio, inarrivabile. Si è ritirata molto presto, ma ha saputo rimanere nell’immaginario collettivo degli italiani, vestita solo dell’interpretazione dei suoi brani che periodicamente ci regala. Solo di Mina, di Chico Buarque de Hollanda e di Joan Manuel Serrat ho tutti i dischi. In questo periodo sto riscoprendo le loro meravigliose sonorità e la mia collezione di più di duemila lp che non ho mai avuto il tempo di ascoltare».

Com’era Pasolini? Lei ha raccontato che nel calcio picchiava duro.

«Pier Paolo era appassionato di calcio, giocava con passione senza risparmiare o risparmiarsi nulla, come ha sempre fatto vivendo la sua vita. Io lo considero più di uno scrittore, un poeta che ha scritto testi profetici, sulla società e il ruolo della televisione. Mi colpì profondamente lo scempio del suo corpo, le foto mostrate. Mi ricordarono subito quelle del Che Guevara, che, come un moderno Cristo, fu fotografato subito dopo la sua uccisione con intorno i suoi assassini soddisfatti dell’esibizione del loro trofeo».

Che idea si è fatta della sua morte?

«Ricordo bene che ci obbligarono a pensare che fosse stato un omicidio a scopo sessuale, ma in quel periodo, in un’Italia turbolenta, che aveva e avrebbe subito stragi di cui ancora non sappiamo i mandanti, questa spiegazione mi è sempre risultata offensiva. Pasolini è un altro, ennesimo buco nero della storia della nostra disgraziata Repubblica».

Qual è stata la più grande lezione che lei ha tratto dalla vita e dalla sua amicizia con Muhammad Alì?

«La sto vivendo sulla mia pelle: sono vecchio e con acciacchi più o meno seri che mi hanno complicato la vita. Non vedo più tanto bene, faccio molta fatica a leggere, ma continuo a farlo, a studiare, a scrivere. Mi sono fermato psicologicamente durante la pandemia, pensavo fosse una disgrazia insopportabile accaduta proprio a me. Poi semplicemente, mia moglie Loredana mi ha fatto ricordare la lezione di Muhammad Alì, che quando passava a Roma ci veniva sempre a trovare con la sua Lonnie. Lui, “the greatest”, il più grande, colpito proprio nella parola che aveva usato così mirabilmente per difendere i diritti civili della sua gente diceva spesso: “Ho ricevuto così tanto dal mio Dio che neanche questa malattia può minimamente pareggiare quello che ho ricevuto da Lui”. In fondo, è così pure per me. Sono state quindi le parole di Muhammad Alì a farmi trovare un modo altro, diverso per continuare la mia professione di giornalista. Anzi, ora ho imparato ad ascoltare di più e meglio».

E dall’amicizia con Gabo? Secondo lei Gabriel García Márquez era consapevole di essere uno scrittore immenso?

«Sicuramente è stato lui a farmi scalare la lunga fila di giornalisti che anelavano un’intervista a Fidel Castro. Io da tempo mi ero preparato con Saverio Tutino e con il suo aiuto pensai a più di cento domande da fare al Comandante. Pura follia. Nel frattempo, nel corso degli anni, avevo incontrato e tessuto la mia amicizia con il Premio Nobel varie volte. Lo avevo incontrato inizialmente a Città del Messico, dove viveva e dove lo avevo aiutato ad avere un incontro tra lui e il nostro presidente Pertini e poi a Cuba, dove aveva fondato la Scuola di Cinema a pochi km dall’Avana. L’aveva intitolata a Zavattini, perché con gli altri registi cubani, avevano tutti frequentato la Scuola sperimentale di cinematografica a Roma. Mi raccontava spesso, divertito, che quando parlava agli italiani dell’orgoglio di aver conosciuto Zavattini, questi spesso rispondevano: “Zavattini chi?”. In quella Scuola dava lezioni di scrittura creativa e di giornalismo; poi più tardi aveva creato una Scuola di giornalismo in Colombia. Era un uomo molto colto e molto divertente. Più che scrittore immenso, lui aveva l’urgenza di essere utile socialmente, perché – sosteneva convinto – è questa la funzione sentita dagli intellettuali in America Latina».

Maradona. Se dovesse riassumere questo personaggio senza confini in poche parole?

«Insieme a Pietro Mennea è stato un dolore immenso la notizia della sua morte. Mi ha concesso il privilegio di attraversare ombre e luci della sua vita. Non l’ho mai giudicato, perché non è questo il compito che ci si deve aspettare da un giornalista. Ho tentato di raccontarlo nella maniera più aderente possibile. Con mia moglie Loredana abbiamo deciso di distruggere parte del materiale filmico riguardante le sue sedute dallo psicologo che mi aveva fatto filmare a forza».

Me lo racconta un errore giornalistico? O, come diciamo noi, un “buco”?

«L’ho detto prima, due: la mancata intervista a Nelson Mandela e a Paul Mc Cartney. Un altro “buco” è stato l’intervista a Barack Obama. Subito dopo il mio documentario “Cuba nell’epoca di Obama” del 2011, come avevo fatto con Fidel Castro, ho chiesto l’intervista al Presidente nordamericano. Ho seguito le solite procedure burocratiche che si fanno per le interviste ai capi di stato, la richiesta all’Ambasciata di appartenenza. Mi hanno fatto produrre una montagna di documenti: sulla mia società, su tutti i miei documentari, la mia biografia, le mie domande, addirittura la lettera di accompagnamento di un membro del Partito Democratico e poi mi risposero dopo un bel po’ di tempo che per quel tipo di intervista non erano ancora maturi i tempi. Succede».

Ci parla del progetto Minà’s Rewind?

«Da circa dieci anni, con Loredana, stiamo lavorando alla conservazione della memoria di tutto quello che ho fatto come giornalista. Abbiamo privilegiato inizialmente i libri, poi un documentario “Minà, una vita da giornalista” che presenteremo a ottobre e infine questo meraviglioso progetto, “Minà s Rewind”, il più poetico di tutti, quello a cui tengo di più: la condivisione con chi ne vorrà sapere di più, delle interviste che ho fatto nel corso della mia vita professionale e che non hanno mai visto la luce, per svariati motivi. Questa nuova idea l’ho potuta intraprendere grazie alla sagacia di Loredana che ha messo su un gruppetto di collaboratori: la più giovane, la mascotte, Ludovica Piccialuti, 21 anni che si occupa di grafica e dei contatti con la stampa insieme a Bruno Martirani che gestisce materialmente i miei profili, Dario Caregnato, un vero genio delle strategie dei social; dopo 15 anni di lezioni semplificative di questo che per me era un mondo inconcepibile, mi ha fatto capire che potevo arrivare ai miei lettori anche senza giornali o tv; Eugenio Baldassarri Hernandez, il mio iperattivo figlioccio che sa tutto su tecniche di montaggio e riversamenti e infine Andrea Conforti, che supervisiona tutti e tutto con l’amore e l’amicizia che mi riserva da molto tempo».

Un nuovo modo di fare giornalismo?

«Per me, vecchio ultraottantenne, è la rinascita ad un nuovo modo di vivere il mio mestiere, ma soprattutto la mia vita. Non è vero che i due modi di fare giornalismo, il mio, quello investigativo tradizionale e quello fatto sui social sono inconciliabili. Minà’s Rewind vuole essere proprio questo anello di congiunzione: mettere nel mio sito e sul mio canale You Tube informazione verificata senza dipendere economicamente da nessuno, dove chi vuole può fermarsi a leggere un mio articolo o un libro o un numero della rivista “Latinoamerica” o vedere un’intervista filmata. Con produzionidalbasso.it abbiamo iniziato una raccolta fondi che ci ha permesso di iniziare questo lavoro. È per me sconvolgente quanta gente mi legge, gli attestati di affetto. Sono onorato, e anche felice di aver trovato un nuovo modo di condivisione con gli altri. È questo il sale della vita».

24 luglio 2022 (modifica il 24 luglio 2022 | 07:11)

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, 2022-07-24 05:17:00, Il giornalista Gianni Minà si racconta: l’incontro con i Beatles, l’amicizia con Fidel Castro, Roberta Scorranese

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