di Giovanni Visone*
Storie dal campo di Intersos nel Paese che ha accolto il maggior numero di profughi. Assistenza e protezione dell’organizzazione umanitaria ai rifugiati (qui sono 90mila)
Anatoli grida al telefono. Che succede? «Gli inquilini si lamentano perché è saltato internet, ma io che posso fare? Sto cercando un’elettricista, la rete è danneggiata». A 73 anni, lo «zio», come lo chiamano tutti, non smette un momento di lavorare. È amministratore di tre grandi condomini a Mykolayiv, sulla costa del Mar Nero, una delle città più colpite dai bombardamenti di questi mesi. Nei palazzi, prima della guerra, abitavano 450 famiglie, ne resistono ancora una quarantina. E chiedono aiuto. Le tubature danneggiate, l’ascensore rotto. La vita dello zio Anatoli è ancora lì, mi mostra le foto dell’edificio, crivellato di proiettili: «Questo è il mio balcone. Quando le schegge di una bomba ci hanno semidistrutto il salotto, siamo scappati». Eppure ad agosto è tornato, vivendo per 7 giorni nel rifugio, in cantina. «Sono andato a prendere i documenti degli immobili, li ho messi al sicuro».
Ora Anatoli è in Moldavia, in uno dei tanti centri di accoglienza spontanea sparsi nel territorio della piccola repubblica ex sovietica, e sostenuti dall’organizzazione umanitaria italiana per cui lavoro, Intersos, con i miei colleghi impegnati nella fornitura di beni primari e nella protezione dei rifugiati più vulnerabili. Siamo a Tataresti, un villaggio agricolo a mezz’ora dalla capitale Chisinau. Nel centro organizzato dalla Chiesa Pentecostale la gente va e viene. Ma Anatoli rimane. L’unico luogo dove andare, dice, è casa mia. L’unica cosa che desidera, aggiunge con parole semplici, è la pace. Lontana, così come il ritorno. E come lui decine di migliaia di rifugiati ancora presenti nel Paese. Nel centro sono nate nuove amicizie. Con Anatoli, oltre alla moglie, c’è una grande famiglia. Vengono dal nord dell’Ucraina. L’8 marzo, raccontano, li attendeva un aereo per gli Usa. Riunificazione familiare con i parenti nell’Oregon. Un viaggio atteso da cinque anni. Volo saltato, fuga in Moldavia.
Il «ponte»
E ora? «In Ucraina la nostra vita era dura – ricorda Maria, mamma di tre bambini – i miei famigliari sono lavoratori stagionali nell’agricoltura. Per questo mio marito voleva andare via e ora attendiamo un nuovo volo, forse a ottobre. Ma se mi chiedi dove vorrei essere domani, ti posso dire la verità? A casa». La Moldavia, oggi, è un ponte tra l’Ucraina e il resto del mondo, ma in molti si sono fermati nel mezzo, senza sapere che fare. Un ponte di vite sospese e nostalgie. Il 67% dei rifugiati dichiara di essere separato da un altro membro del nucleo famigliare, normalmente il marito, rimasto in Ucraina.
Andare avanti? Ma dove, come, perché? Tornare indietro? Magari, ma ora è impossibile. Degli oltre 300mila rifugiati presenti nel Paese al momento massimo della crisi ne sono rimasti, secondo i dati di Unhcr, circa 90.000. Fra di loro, tante persone fragili, per ragioni di età e di genere, per la solitudine o per la povertà. Quando arriviamo al confine di Palanca, Odessa è a solo 50km (per i moldavi, fino a poco fa era la città dei locali sul mare, una meta di brevi vacanze). Qui, nel centro di prima accoglienza allestito a pochi chilometri dalla frontiera, gli operatori di Intersos garantiscono che nessuno sia lasciato solo e che tutti ricevano cure e assistenza.
Anche quando il viaggio è un’esperienza estrema. Valentina ha 86 anni, con la figlia Olga ha lasciato per la prima volta la regione dove è nata e vissuta. Come molti, quando i bombardamenti sono divenuti troppo frequenti, troppo vicini alle mura di casa, ha scelto la fuga. Non chiede di vedere il mondo, ma di «pregare e cucinare il borsch», di cui mi recita orgogliosa la ricetta. Cammina a piccoli passi, appoggiata al bastone, nel piazzale assolato. Gli operatori le offrono un letto in un container, con l’aria condizionata: ha la pressione alta, e i medici le hanno raccomandato il riposo.
La nonnina di 92 anni
Non è certo la persona più anziani che i nostri operatori hanno visto: «Qualche giorno fa abbiamo assistito una donna di 92 anni, completamente sola, voleva andare in Romania». Il ruolo delle organizzazioni umanitarie internazionali, qui, è quello di sostenere gli sforzi di accoglienza e assistenza che la Moldavia sta compiendo, garantendo standard di assistenza e protezione.
«Il piccolo paese con un cuore grande», come recita la comunicazione ufficiale e si legge appena arrivati all’aeroporto di Chisinau, ha fatto il possibile per aprire le sue porte ai rifugiati. Ma il sistema appare ancora largamente incentrato su una risposta di emergenza, non di lunga durata. Se il 65% delle persone vive in appartamenti in affitto o centri di accoglienza (comunque spesso provvisori), il 28% si trova ancora in centri di prima accoglienza o spazi collettivi. I principali ostacoli riguardano i percorsi di accesso ai servizi sanitari e sociali, uniti alla mancanza di mezzi di sostentamento e lavoro. Il prolungarsi della guerra, insieme alla fine ormai imminente dell’estate, e all’arrivo di temperature rigide e condizioni di vita più dure, rappresentano ulteriori incognite nel loro futuro.
*Direttore Comunicazione e Fundraising Intersos
19 settembre 2022 (modifica il 19 settembre 2022 | 01:07)
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, 2022-09-18 23:13:00, Storie dal campo di Intersos nel Paese che ha accolto il maggior numero di profughi. Assistenza e protezione dell’organizzazione umanitaria ai rifugiati (qui sono 90mila), Giovanni Visone*