di Paolo Salom
L’ambasciatore in Urss dal 1985 al 1989 sui suoi anni moscoviti: «Mikhail diverso dai suoi predecessori: quando lo dissi a Roma e capii di non essere più gradito»
«Quando arrivai a Mosca, nel 1985, la capitale dell’Unione Sovietica era in sostanza ancora quella di Stalin. L’Urss era allora una gigantesca macchina burocratica che funzionava sempre allo stesso modo».
Sergio Romano è un testimone privilegiato. Ambasciatore d’Italia a Mosca tra il 1985 e il 1989, ha assistito di persona alla «rivoluzione» che avrebbe cambiato per sempre l’Urss. Non solo: diplomatico di grande esperienza e fine studioso di storia, Romano si accorse sin dal principio che qualcosa, nelle riforme varate da Gorbaciov, cominciava a stonare. Ma pochi, a Roma, si fidarono del suo fiuto, almeno in quel caso.
«Mi sono insediato — spiega al Corriere Sergio Romano — proprio nel momento del passaggio: dopo Andropov e Chernenko, arrivava al Cremlino una figura assai diversa. Noi del corpo diplomatico capimmo subito che Gorbaciov rappresentava una novità assoluta per l’Urss, che si stava per aprire una stagione senza precedenti».
In effetti, il giovane segretario generale del Pcus si presentò allentando per la prima volta la presa della censura e della polizia politica sulla società. «I cambiamenti furono immediati per quanto riguarda, per esempio, la libertà di stampa e di opinione. Ma non solo: ai cittadini sovietici fu concesso, novità assoluta, il diritto di viaggiare ovunque nel proprio Paese, cosa fino a quel momento complicatissima e soggetta a permessi e passaporti “interni”». Insomma, un homo novus: «Dopo una serie infinita di personaggi “ingessati”, ecco arrivare al vertice dell’Urss un uomo garbato ed elegante, capace di muoversi con tatto nella gabbia del potere sovietico».
Eppure, l’ambasciatore Romano si accorse che qualcosa sembrava non funzionare nel verso giusto… «Mi trovai ben presto — dice ancora — a osservare criticamente gli avvenimenti. Rimproveravo a Mikhail Sergeevic di non avere un vero programma economico. Va bene concedere più libertà: tutti erano giustamente contenti. Ma cosa fare del sistema di produzione collettivo? Lui parlò della creazione di una “industria sociale”: ma non spiegò mai in cosa consistesse. Per come la vedevo io, si trattava di introdurre nelle aziende di Stato un po’ di democrazia interna. Ma per il libero mercato, per le privatizzazioni (con il risultato di creare un esercito di oligarchi) dovevamo attendere l’arrivo di Eltsin». E così i suoi rapporti diretti al governo italiano cominciarono a crearle dei «problemi». «Questo non lo so, nessuno mi ha mai detto nulla — risponde Sergio Romano — Tuttavia io mettevo in guardia sul pericolo di eccedere in entusiasmo. Ero preoccupato: non ne sapevamo ancora abbastanza, soprattutto per quanto riguarda la sua idea di politica internazionale». Gorbaciov «si stava presentando al mondo e si era messo l’abito giusto. Ma di cose concrete, progetti: poco o nulla». E quindi si arrivò a una rottura tra lei e il governo a Roma. Può raccontarci, oggi, chi decise di metterla da parte? «Fui io a dimettermi anche se in verità ho avuto l’impressione che si fossero stancati di me. Ero rientrato a Roma e mi era stata proposta una sede di “tutto riposo” presso un’organizzazione internazionale, in una capitale dell’Europa occidentale. Io in vacanza? Preferii lasciare».
Da allora in avanti Sergio Romano si è dedicato a un’altra sua grande passione: la scrittura. Proviamo infine a chiedergli quali politici ricorda legati a quegli anni. «Ho avuto a che fare soprattutto con Andreotti e De Mita. Avevo simpatia per Andreotti: non era un uomo caldo (e nemmeno io), non cercavamo l’amicizia. Ma era stimabile: colto ed esperto». E De Mita? «No, lui non era Andreotti».
31 agosto 2022 (modifica il 31 agosto 2022 | 23:03)
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