di Susanna Tartaro
Basho percorse 2.400 chilometri nel Giappone di fine Milleseicento. Fu il primo a cercare l’essenza dell’esistenza e immetterla in una forma stilistica nuova. Un tratto di quel suo percorso sopravvive ancora e al termine c’è una statua che è un insegnamento
La poesia giapponese conosce un fondamentale sviluppo formale e tematico grazie a Bashō (16441694) il primo a cercare l’estrema essenza della vita e a immetterla in una forma stilistica nuova, e brevissima, dove natura e accadimenti umani diventano la stessa cosa. La gabbia formale che si sceglie è talmente piccola – l’hakai si regge su pochi versi – da sembrare una sfida degna di un samurai. E lui lo era. Di basso rango in verità, povero in canna, ma pur sempre un vero samurai. La sua famiglia tenta di sbarcare il lunario mentre il giovane Matsuo Manefusa, ancora si chiama così, pratica l’arte militare, affina l’uso delle armi e rende il suo fisico sempre più atletico. Ma è un ragazzo inquieto, la strada che vede davanti a sé non lo convince, quindi decide di imporre una svolta al destino: mollare tutto. In questo slancio inaspettato, dall’eleganza d’acciaio di una mossa d’arte marziale, verso un altrove ancora da trovare, risiede il suo primo gesto poetico.
Sceglie, in nome della poesia, di percorrere nomade il Giappone della fine del milleseicento, fonda una scuola di poesia e diventa un monaco zen. Cambia nome in Bashō, banano (la pianta dono di un allievo devoto) e riempie il taccuino di appunti e poesie. Giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, anno dopo anno. Ogni tanto un po’ d’ombra per rinfrancarsi, un villaggio dove rifocillarsi, una cascata da osservare meglio, più da vicino, magari da un’angolazione alternativa a quella solita, come leggiamo in un passo (la definizione “passo” si addice alla perfezione ai pensieri del nostro monaco in cammino) de «Lo stretto sentiero del profondo Nord». Qui Bashō e il suo discepolo, immersi nella foschia, salgono faticosamente verso la cima del Monte Kurokami. I rami sono fitti, lontano la neve che brilla nel sole. L’allievo compone uno haiku, sarà il maestro ad appuntarlo per noi. Poi, finalmente, la cascata: «L’acqua precipita volando dalla sommità di una grotta e ricade per cento shaku in una pozza del colore dell’acqua marina, circondata da mille pietre. Insinuandosi dentro la grotta, si può osservare la cascata da dietro».
Il poeta conclude la paginetta con questi tre versi: Tempo di appartarsi dritto sotto la cascata inizio di un ritiro d’estate Gli haiku sono poesie fatte di nulla, poche parole che racchiudono un mondo in soli tre momenti, sono componimenti fulminei tanto da doverli rileggere più volte, e icastici da evocare immagini nitide che si incidono nella mente di chi legge.
AFFINA L’USO DELLE ARMI, MA È INQUIETO: DECIDE DI MOLLARE TUTTO E IN QUESTO SLANCIO INASPETTATO RISIEDE IL SUO PRIMO GESTO POETICO
CONOBBE IL POTERE E L’EMARGINAZIONE, LE RELAZIONI SOCIALI E LA SOLITUDINE. DECISE DI IDENTIFICARSI CON UN ALBERO: L’ALBERO VIAGGIANTE
Fino a Bashō la poesia era ferma al gioco letterario più estemporaneo e colloquiale; lo haiku come lo intendiamo oggi, ovvero i tre versi sillabici secondo lo schema 5-7-5 (ovviamente, il più delle volte, lo schema sillabico si perde nella traduzione) deriva dall’evoluzione che lui opera nella forma e nel punto di vista. Seguiranno questo tracciato Issa Kobayashi, Yosa Buson, Shiki, e nel tempo si codificheranno le regole relative al kigo , il riferimento stagionale, e al kireji, una sorta di ribaltamento finale. E come quasi tutto ciò che deriva dall’oriente, niente è come sembra e la semplicità è solo apparente, frutto di una complessa scarnificazione. Costa in rinuncia, in sacrificio, in dedizione. Quanti villaggi lasciati alle spalle, e quanti incontri, quante stagioni attraversate durante una ricerca stilistica, e personale, che dura un’esistenza intera.
Bashō, il padre di questo cammino in tre versi, si delinea come una figura sorprendente che ha conosciuto il potere e l’emarginazione, le relazioni sociali e la solitudine. Un uomo attivo, scattante, che decide di identificarsi con un albero, la creatura più stabile e radicata. L’“albero viaggiante” Bashō indossa geta e kasa buddisti e rinasce. Se rovistassimo nella sua sacca, troveremmo: un cappello largo di bambù per proteggersi dal sole e dalla pioggia, carta di riso per il freddo, un paio di sandali di paglia.
Nella bisaccia che gli pende al collo serba le cose più preziose, i regali degli amici e il necessario per scrivere: pennelli, la pietra per l’inchiostro, un taccuino, il rosario buddista, un piccolo gong e un flauto. E per tutti i chilometri da percorrere a piedi, circa 2400, conta sull’aiuto di un bastone leggero ma molto resistente. Come lui. Lo stretto sentiero del profondo Nord ha la cura e la traduzione di Asuka Ozumi e Chandra Livia Candiani che offrono al lettore il frutto di un intimo confronto che respira nello stesso ritmo dell’autore. Le note, godibilissime, sono la bussola per addentrarsi in un viaggio spirituale di centocinquanta giorni preciso come una mappa. Bashō muore a Osaka nel 1694, quasi cinquantenne, dopo un successivo lungo cammino intrapreso con le forze rimaste. I compagni lo ricoverano in un alloggio di fortuna dove smette di alimentarsi. Dopo essersi raccomandato di continuare a scrivere versi, brucerà l’incenso e chiederà di essere lasciato da solo per prepararsi all’ultimo viaggio.
Detterà tre lettere di commiato, una scritta di suo pugno al fratello, e saluterà i discepoli con questo ultimo haiku: Ammalatomi in viaggio il mio sogno corre ancora qua e là nei campi spogli Chiudo questo libro, metafora della strada che giorno dopo giorno anche noi intraprendiamo nella nostra quotidianità fatta di gioie ma anche di lutti, di colleghi rompiscatole, di piccoli soprusi al semaforo o di misteriose burocrazie, consapevole che il sentiero continuerà oltre l’ultima pagina. Attraversando quel Giappone duro, estraneo a qualsiasi cliché estetizzante, grazie a Bashō riusciamo a vedere il cielo che cambia colore oltre la nostra finestra, a leggere le sfumature del nostro tramontare. Si affinano l’arte della concentrazione e del silenzio, e della cura degli spazi vuoti che solo l’uso di poche parole evidenzia.
Una curiosità. A Sō ka, nella prefettura Saitama, a nord di Tokyo, proprio da dove incomincia «Lo stretto sentiero del profondo Nord», hanno preservato un tratto di quei 2400 chilometri che il maestro percorse su e giù per il Giappone. Protetto dal cemento e dal traffico il pezzo di strada sopravvive, ornato dai pini che bordano l’acciottolato dove Bashō passò. Alla fine del viale una statua raffigura il poeta nel gesto di camminare in avanti ma con la testa leggermente volta all’indietro. Procedere, tenendo però ben presente quello che siamo e siamo stati, cercando un nuovo equilibrio. Per noi scalcagnati samurai, un insegnamento da tenere a mente.
17 marzo 2022 (modifica il 17 marzo 2022 | 08:50)
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, 2022-03-17 09:46:00, Basho percorse 2.400 chilometri nel Giappone di fine Milleseicento. Fu il primo a cercare l’essenza dell’esistenza e immetterla in una forma stilistica nuova. Un tratto di quel suo percorso sopravvive ancora e al termine c’è una statua che è un insegnamento, Susanna Tartaro
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