di Marco CremonesiAntonino La Russa entrò alla Camera nel ’52 e ne uscì nel ‘92: il giorno prima che ci entrasse il figlio, che oggi rievoca. «Il momento più esaltante della mia carriera? Quando il 13 giugno del 1970 il Msi diventò il primo partito a Catania e Bolzano: mai lo avremmo pensato» «La mia soddisfazione maggiore? L’essere riuscito a fare il politico e l’avvocato. Esattamente quel che ha fatto mio padre». La famiglia di Ignazio La Russa il 25 maggio ha compiuto 50 anni ininterrotti di Parlamento: il padre Antonino entrò alla Camera nel 1952 e ne uscì nel 1992, il giorno prima che ci entrasse il figlio. Ma il demone della politica ha sempre posseduto tutta la famiglia: il fratello maggiore, il democristiano Vincenzo («la nostra pecora bianca») è stato a lungo sia alla Camera che al Senato, il minore Romano è stato eurodeputato ma anche la sorella Emilia è un’accesa militante. Tutto nasce con suo padre Antonino? «A dire il vero, il deputato Dc Domenico La Russa, nobile e calabrese, negli anni ‘70, nel lasciare il Parlamento scrisse a mio padre che secondo lui eravamo parenti, e dunque la famiglia La Russa sarebbe stata in Parlamento dal 1861. Ma io, non nobile e siciliano, non ci credo e mio padre ci rideva su. Dunque sì, tutto nasce da mio padre». Era soddisfatto che lei proseguisse la tradizione? «Credo di sì. Ma lui era sì un politico, con la P maiuscola, ma in lui non era l’unica passione. Amava allo stesso modo anche fare l’avvocato così come il dirigente d’azienda. Amava fare l’avvocato anche se negli anni ‘50 molti lo pagavano con un saluto romano e al massimo qualche regalo a Natale. E dato che lui è stato il cuore del mio sviluppo ideale, io volevo essere come lui, politico e avvocato. E dunque, il mio maggior successo è stato il riuscirci. Spero di aver preso anche un po’ della sua ironia». Un esempio? «Beh, quando nel 1994 siamo arrivati al governo il suo commento fu: “Tutti questi anni, tutta questa fatica per mandare al governo ‘sti carusi”…». Suo padre fu giovanissimo segretario del partito fascista a Paternò. Come prese la svolta di Fiuggi? «Disse: “Fate benissimo, è giusto… Ma io non mi iscrivo. Non c’entro”. Più avanzavano gli anni, più tornava a quelli suoi più lontani, a quando era presidente degli universitari fascisti». Una discussione politica dura? «Mai. Soltanto, quando io tardavo a laurearmi perché inghiottito dalla politica, lui mi disse: “Non ti ho mai detto di non farla. Ma adesso che devi laurearti, per un po’, rallenta”. Fu lui ad accompagnarmi alla laurea, armato, cosa per lui mai avvenuta prima». Armato? «Sì, io ho fatto l’università a Pavia, dato il clima a Milano non avrei potuto frequentare. Ma anche lì, era complicato: per fare l’ultimo esame sono stato fatto entrare passando per cunicoli e sotterranei. In realtà, alla laurea invece non successe nulla: era la fine di luglio, saranno stati tutti in vacanza. Ma mi è stato vicino anche alla mia prima arringa. Poco tempo dopo avvenne un fatto che ha fatto nascere la mia considerazione positiva per Francesco Borrelli». Perché? «Seguivo un processo per rapina e omicidio, Borrelli era presidente della Corte d’assise. Alla sera io non ero soddisfatto: l’imputato era stato assolto dall’accusa di omicidio, ma era stato bastonato per la rapina: 9 anni. Ma Borrelli chiamò mio padre per complimentarsi con lui della mia arringa. Ammetto che anche per questo mai io ho polemizzato con Borrelli, nemmeno nei momenti più tesi delle vicende di Berlusconi. E, se è per quello, nemmeno con Piercamillo Davigo, il migliore di tutti come preparazione giuridica». I suoi fratelli? Che rapporto aveva con Vincenzo? «Lui era la mia guida. Sapeva tutto, studiava sempre. Non c’erano internet o social, ma la mia fonte di consapevolezza era lui. Una sicurezza». E con Romano? «Lui era il più determinato. Quando fui eletto segretario della Giovane Italia a Milano, ci fu una protesta: perché non Romano, altrettanto preparato? La politica in quegli anni era anche una questione di coraggio fisico e lui ne aveva più di me». Lei si è trasferito a Milano come suo padre. Era anche lui interista? «Ma no, lui non si è mai appassionato in modo viscerale. Chiamava i terzini i “back”, con la terminologia inglese che si usava nei suoi anni. Anche se fu presidente della squadra di Paternò. La chiamò “Fiamma”. La squadra vera, che si chiamava Ibla, era stata radiata per invasione di campo e l’arbitro dovette farsi due mesi di ospedale. Pensi che tra quelli entrati in campo c’era anche mio fratello Vincenzo». Ma come? Suo fratello era persona moderatissima e garbata… «Sì, ma lì andò così , entrarono praticamente tutti. È uno dei miei primi ricordi di calcio: io ero piccolo e piangevo, c’erano due carabinieri a cavallo che erano entrati in campo per salvare l’arbitro dando gran sciabolate di piatto…». Lei ha attraversato fasi diversissime della politica. La fiamma è ancora nel simbolo del partito… «Nelle idee c’è una continuità e un’evoluzione. Per certi temi, non c’è una necessità di evoluzione: il nostro atlantismo è quello che arriva da Almirante, e da allora non abbiamo mai avuto dubbi sulla Nato come strumento difensivo. Per il resto, il Msi era il partito degli sconfitti della guerra. Ma il loro grande merito è quello di non avere mai pensato al terrorismo o a ribellioni contro la scelta democratica. Certo: rivendicavano un diverso giudizio sulla storia, ma hanno costruito un partito che più democratico non si può». Il momento più entusiasmante della sua carriera? «Quando il 13 giugno del 1970, il Msi diventò il primo partito a Catania e Bolzano, mai lo avremmo pensato. E poi, quando diventai segretario della Giovane Italia. Invece che mio fratello». Da ministro della Difesa, lei andò a El Alamein. Suo padre, in guerra, fu catturato lì. È quello il motivo? «Sì, fino a un certo punto… Mio padre diceva: “Ma perché tutti parlano di El Alamein, dove abbiamo perso, invece che parlare di Tobruck dove abbiamo vinto?”. Io avevo regalato al ministero una sua foto mentre stava aspettando lo scambio dei prigionieri. Ma anni dopo qualcuno l’ha fatta rimuovere…». Altre foto da ricordare? “Io, Pinuccio Tatarella, Luciano Laffranco e Maurizio Gasparri che stiamo per partire da Vulcano, nel 1987, dopo aver passato otto ore a organizzare la corrente finiana una volta avuto il via libera da Almirante che era a Taormina era ospite di mio padre. Credo che quella stessa foto l’abbia sulla sua scrivania anche Maurizio». 26 maggio 2022 (modifica il 26 maggio 2022 | 08:07) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-05-26 07:09:00, Antonino La Russa entrò alla Camera nel ’52 e ne uscì nel ‘92: il giorno prima che ci entrasse il figlio, che oggi rievoca. «Il momento più esaltante della mia carriera? Quando il 13 giugno del 1970 il Msi diventò il primo partito a Catania e Bolzano: mai lo avremmo pensato», Marco Cremonesi