di Matteo Cruccu, inviato a Berlino
La band torna in Italia per quattro acclamatissimi concerti: li abbiamo visti in anteprima
Molti aspettano con trepidazione da mesi, un’attesa alimentata sicuramente dal tempo mancante causa Covid. Un’attesa però anche pompata da ambigue dichiarazioni che si sono susseguite identiche ogni volta nell’ultimo decennio: «Questo potrebbe essere il nostro ultimo tour». Ma alla fine non è mai: già Bologna (il 31/10), Firenze (l’1/11), Padova (3) e Milano (4) sono praticamente all’insegna del tutto esaurito per accogliere il ritorno dei Cure e del suo eterno frontman Robert Smith. Che non solo non smette, ma ha appena lanciato un album nuovo Songs of the Lost World, il primo dopo 14 anni. Curiosamente, rispetto a quanto impongono le regole della discografia, lo sta saggiando direttamente dal vivo, centellinando le canzoni nelle scalette dei vari show.
Partiti da Riga, in Lettonia, il sei ottobre, per attraversare tutta l’Europa e arrivare finalmente da noi. E, a Berlino, alla Mercedes Benz Arena, davanti a 13mila fan, qualche giorno fa, si è potuto vedere che i Cure stanno, sempre e ancora, benissimo. A partire dalla resa scenica: le tre ore consuete di concerto, tra i più generosi del mondo, a cui ci avevano abituato in passato sono un poco scese, ma il livello rimane altissimo. La voce dell’ora 63enne Robert Smith è sempre perfettamente cristallina, ma ogni tanto ha bisogno di rifiatare e per questo hanno aumentato gli inserti strumentali rispetto al passato. Ma pur sempre munifici, i Cure. E la spiegazione è sempre la stessa: «Nel 1973- raccontò il cantante- risparmiai per un mese per poter vedere a Londra David Bowie. Lui suonò soltanto per 45 minuti. Quando sono diventato musicista, ho sempre pensato che avrei dovuto rispettare il mio pubblico».
Ecco il pubblico, rispettato: quello visto a Berlino è quello cresciuto con lui, quarantenni over e vecchi darkettoni, outsider ieri come oggi, in un’intima connessione con il loro fumetto preferito. Perché a quello assomiglia, Smith, anche appunto a 63 anni compiuti: la pancetta giusto un po’ più arrotondata, il cespuglio di capelli d’ordinanza forse un poco ingrigito, ma poi cerone, rossetto, camicia nera sono sempre al loro posto. Dialoga poco e si muove goffamente, Robert, ma, appunto, quando canta… E la scaletta è un viaggio nella storia della band, dove il cupo e oscuro Disintegration, l’ album capolavoro del 1989, la fa da padrone e dove lo spazio per gli esordi è un po’ compresso. Anche se non manca l’inno Boys Don’t Cry e, soprattutto, A Forest, l’acme della serata, quando l’arena si ipnotizza completamente e si addentra negli intrichi postpunk della band. Ma se Disintegration vince è perché in qualche modo getta un ponte al nuovo lavoro, altrettanto tenebroso in apparenza, come si evidenzia anche nei testi («Promettimi che sarai con me/alla fine» recita And Nothing is Forever).
Ma è un dettaglio: non è un funerale, ma una festa un concerto dei Cure, il nero diventa presto arcobaleno con Friday I’m in Love o Close to me, un sabba giocoso che si conclude, appunto, con Boys Don’t Cry, i ragazzi non piangono. Perché si divertono assai. E noi con loro.
23 ottobre 2022 (modifica il 23 ottobre 2022 | 10:35)
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