I due nocchieri solitari

I due nocchieri solitari

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È possibile governare una metropoli senza avere occhi per vederla, orecchie per ascoltarla, senza comprensione? Understanding, dicono gli inglesi. È la domanda che sorge spontanea quando scopriamo quotidianamente le cose che non vanno, quando ci accorgiamo a nostre spese che le funicolari chiudono alle dieci di sera, quando restiamo imbottigliati nel traffico perché a via Caracciolo c’è la festa della pizza, quando cerchiamo di schivare le partite di calcio organizzate in Galleria, quando vediamo folle rumorose che battono una sudicia via Toledo. Chi è in grado di cogliere le sofferenze, i disagi, i desideri, le priorità della gente? Bastano a questo scopo un sindaco e un «governatore»? Napoli appare spesso — e spesso è apparsa negli anni scorsi — come una comunità inascoltata, tre milioni di persone che non hanno voce in capitolo, una popolazione che viene amministrata più o meno bene (più o meno male) senza che si cerchi mai di comprenderla. Il Palazzo sembra lontano, che sia Santa Lucia o San Giacomo. De Luca e Manfredi promettono mari e monti. Sfornano progetti visionari, quartieri interi da riscrivere, un Albergo dei Poveri dove collocare di tutto e di più, politiche culturali degne dell’ombelico del mondo, una ringiovanita e amichevole macchina comunale, una gestione finalmente utile del patrimonio pubblico, eccetera. E i napoletani non si chiedono soltanto se e quando accadrà davvero tutto ciò. Si chiedono anche (o dovrebbero chiedersi) chi abbia deciso cosa, quali competenze siano state investite alla bisogna, a chi sia stato affidato il compito di ripensare il volto della metropoli, chi ne prepari il futuro. Qualche consulente del sindaco o del «governatore»? Qualche figura apicale delle rispettive amministrazioni? Qualche collega o amico o amico degli amici? Qualche «trombato» alle elezioni da ricompensare? L’impressione è che i legittimi decisori — un «governatore» eletto con il 69% dei voti, un sindaco eletto con il 63% dei voti — siano soli. Beatamente soli, nel caso dell’accentratore De Luca, o costretti alla solitudine, nel caso di Manfredi. Ma comunque soli. L’impressione è che siano tutti e due privi di una politica che fornisca loro i necessari terminali nella società urbana, che dia loro una rete in grado di cogliere ciò che «pensano» i napoletani, che gli affianchi donne e uomini dotati della capacità professionale di vedere e ascoltare. Che tutti e due siano privi degli strumenti per comprendere la città, come la comprendono invece gli artisti gli scrittori gli intellettuali napoletani, il sulfureo Fofi, il ruvido De Luca, il filosofo De Giovanni, il maestro di strada Moreno, come la comprende nei suoi podcast Silvio Perrella, come la comprendono i duri romanzi di Saviano o le immagini dense dei Martone, dei Sorrentino, dei Capuano. A De Luca e Manfredi servirebbe come il pane una politica capace di registrare il ricchissimo puzzle delle voci napoletane. E invece sembrano nocchieri solitari di un’arca di Noè, nocchieri ciechi, privi degli occhi della politica, anche quando devono prendere le decisioni più impegnative. Quelle riguardanti il Pnrr, ad esempio. Per Napoli il Pnrr si presenta come una svolta storica, è stato detto. Riguarda innovazioni sostenibili, efficientamento burocratico, infrastrutture, traffici mediterranei, eccetera. Il futuro, insomma. E sindaco e «governatore» ne sembrano consapevoli. De Luca non perde occasione per chiedere che le relative procedure amministrative siano semplificate. Manfredi, con il suo pedigree ingegneristico, insiste sulla concretezza dei progetti e richiama la necessità di una sinergia pubblico-privato. Vedremo se le rose fioriranno. Ma intanto preoccupano le intemerate di palazzo Santa Lucia contro un’allocazione delle risorse che penalizzerebbe la Campania, grida talvolta scomposte, slogan più che ragionamenti. Preoccupa la mancanza di una mobilitazione politica dei territori su temi vitali che meriterebbero di essere massimamente condivisi non solo con gli stakeholder, ma prima ancora con l’opinione pubblica. Preoccupa l’autoreferenzialità di un leader regionale che si è sempre mostrato riluttante al pubblico dibattito, restio ad ascoltare l’eco delle sue proposte, fieramente deciso a giocare la partita dell’uomo solo al comando. E a cui mancano i contrappesi preziosi che potrebbero venirgli dall’associazionismo politico. De Luca — e non sempre per colpa sua — non ha partiti alle spalle, non dispone (ammesso che la voglia) di una classe dirigente che possa supportarlo ed eventualmente, quando sarà, succedergli. Il suo Palazzo è al tempo stesso potente e isolato. Ma perplessità simili suggerisce il municipio di Manfredi. Il quale, per un verso, sconta la prossimità di una Regione poco propensa a una collaborazione fondata sul reciproco rispetto delle competenze. E, per altro verso, soffre anch’egli dell’evanescenza del contesto politico. Con una differenza non da poco. Mentre De Luca utilizza il collasso dei partiti per rafforzare la sua autocrazia e gestisce con consumata esperienza il cartello di notabili e micropotentati grazie ai quali ha vinto le elezioni, Manfredi viene adottato da un leader politico nazionale (Giuseppe Conte) e portato a palazzo San Giacomo da una quantità di liste civiche che rischiano oggi di condizionarlo. Certo è che se mai l’ex-rettore avesse sperato in un addestramento alla politica propiziato dalla politica stessa, oggi avrebbe di che preoccuparsi. I suoi partiti di riferimento sono in pessime condizioni, il Pd regionale è commissariato, il mentore Conte ha appena subìto una scissione, i cinquestelle sono dilaniati tra Di Maio e Fico. E tutto questo, naturalmente, restringe l’agibilità politica di una sindacatura che, tanto più di fronte a compiti assai gravosi, dovrebbe essere particolarmente radicata nel tessuto metropolitano. Che si tratti insomma della movida selvaggia o delle strategie del Pnrr, dell’orario delle funicolari o del mitico Molo San Vincenzo, Napoli sembra soffrire una lontananza ormai cronica tra il Palazzo e la società locale. Manca il trait d’union di una rete politica che elabori «visioni» e che al tempo stesso raccolga i desiderata di una numerosa popolazione, i suoi crucci quotidiani, i suoi problemi vitali. Mancano occhi e orecchie per comprendere. Non basta un autocrate e non basta un tecnico. La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 25 giugno 2022 | 08:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-06-25 06:16:00, È possibile governare una metropoli senza avere occhi per vederla, orecchie per ascoltarla, senza comprensione? Understanding, dicono gli inglesi. È la domanda che sorge spontanea quando scopriamo quotidianamente le cose che non vanno, quando ci accorgiamo a nostre spese che le funicolari chiudono alle dieci di sera, quando restiamo imbottigliati nel traffico perché a via Caracciolo c’è la festa della pizza, quando cerchiamo di schivare le partite di calcio organizzate in Galleria, quando vediamo folle rumorose che battono una sudicia via Toledo. Chi è in grado di cogliere le sofferenze, i disagi, i desideri, le priorità della gente? Bastano a questo scopo un sindaco e un «governatore»? Napoli appare spesso — e spesso è apparsa negli anni scorsi — come una comunità inascoltata, tre milioni di persone che non hanno voce in capitolo, una popolazione che viene amministrata più o meno bene (più o meno male) senza che si cerchi mai di comprenderla. Il Palazzo sembra lontano, che sia Santa Lucia o San Giacomo. De Luca e Manfredi promettono mari e monti. Sfornano progetti visionari, quartieri interi da riscrivere, un Albergo dei Poveri dove collocare di tutto e di più, politiche culturali degne dell’ombelico del mondo, una ringiovanita e amichevole macchina comunale, una gestione finalmente utile del patrimonio pubblico, eccetera. E i napoletani non si chiedono soltanto se e quando accadrà davvero tutto ciò. Si chiedono anche (o dovrebbero chiedersi) chi abbia deciso cosa, quali competenze siano state investite alla bisogna, a chi sia stato affidato il compito di ripensare il volto della metropoli, chi ne prepari il futuro. Qualche consulente del sindaco o del «governatore»? Qualche figura apicale delle rispettive amministrazioni? Qualche collega o amico o amico degli amici? Qualche «trombato» alle elezioni da ricompensare? L’impressione è che i legittimi decisori — un «governatore» eletto con il 69% dei voti, un sindaco eletto con il 63% dei voti — siano soli. Beatamente soli, nel caso dell’accentratore De Luca, o costretti alla solitudine, nel caso di Manfredi. Ma comunque soli. L’impressione è che siano tutti e due privi di una politica che fornisca loro i necessari terminali nella società urbana, che dia loro una rete in grado di cogliere ciò che «pensano» i napoletani, che gli affianchi donne e uomini dotati della capacità professionale di vedere e ascoltare. Che tutti e due siano privi degli strumenti per comprendere la città, come la comprendono invece gli artisti gli scrittori gli intellettuali napoletani, il sulfureo Fofi, il ruvido De Luca, il filosofo De Giovanni, il maestro di strada Moreno, come la comprende nei suoi podcast Silvio Perrella, come la comprendono i duri romanzi di Saviano o le immagini dense dei Martone, dei Sorrentino, dei Capuano. A De Luca e Manfredi servirebbe come il pane una politica capace di registrare il ricchissimo puzzle delle voci napoletane. E invece sembrano nocchieri solitari di un’arca di Noè, nocchieri ciechi, privi degli occhi della politica, anche quando devono prendere le decisioni più impegnative. Quelle riguardanti il Pnrr, ad esempio. Per Napoli il Pnrr si presenta come una svolta storica, è stato detto. Riguarda innovazioni sostenibili, efficientamento burocratico, infrastrutture, traffici mediterranei, eccetera. Il futuro, insomma. E sindaco e «governatore» ne sembrano consapevoli. De Luca non perde occasione per chiedere che le relative procedure amministrative siano semplificate. Manfredi, con il suo pedigree ingegneristico, insiste sulla concretezza dei progetti e richiama la necessità di una sinergia pubblico-privato. Vedremo se le rose fioriranno. Ma intanto preoccupano le intemerate di palazzo Santa Lucia contro un’allocazione delle risorse che penalizzerebbe la Campania, grida talvolta scomposte, slogan più che ragionamenti. Preoccupa la mancanza di una mobilitazione politica dei territori su temi vitali che meriterebbero di essere massimamente condivisi non solo con gli stakeholder, ma prima ancora con l’opinione pubblica. Preoccupa l’autoreferenzialità di un leader regionale che si è sempre mostrato riluttante al pubblico dibattito, restio ad ascoltare l’eco delle sue proposte, fieramente deciso a giocare la partita dell’uomo solo al comando. E a cui mancano i contrappesi preziosi che potrebbero venirgli dall’associazionismo politico. De Luca — e non sempre per colpa sua — non ha partiti alle spalle, non dispone (ammesso che la voglia) di una classe dirigente che possa supportarlo ed eventualmente, quando sarà, succedergli. Il suo Palazzo è al tempo stesso potente e isolato. Ma perplessità simili suggerisce il municipio di Manfredi. Il quale, per un verso, sconta la prossimità di una Regione poco propensa a una collaborazione fondata sul reciproco rispetto delle competenze. E, per altro verso, soffre anch’egli dell’evanescenza del contesto politico. Con una differenza non da poco. Mentre De Luca utilizza il collasso dei partiti per rafforzare la sua autocrazia e gestisce con consumata esperienza il cartello di notabili e micropotentati grazie ai quali ha vinto le elezioni, Manfredi viene adottato da un leader politico nazionale (Giuseppe Conte) e portato a palazzo San Giacomo da una quantità di liste civiche che rischiano oggi di condizionarlo. Certo è che se mai l’ex-rettore avesse sperato in un addestramento alla politica propiziato dalla politica stessa, oggi avrebbe di che preoccuparsi. I suoi partiti di riferimento sono in pessime condizioni, il Pd regionale è commissariato, il mentore Conte ha appena subìto una scissione, i cinquestelle sono dilaniati tra Di Maio e Fico. E tutto questo, naturalmente, restringe l’agibilità politica di una sindacatura che, tanto più di fronte a compiti assai gravosi, dovrebbe essere particolarmente radicata nel tessuto metropolitano. Che si tratti insomma della movida selvaggia o delle strategie del Pnrr, dell’orario delle funicolari o del mitico Molo San Vincenzo, Napoli sembra soffrire una lontananza ormai cronica tra il Palazzo e la società locale. Manca il trait d’union di una rete politica che elabori «visioni» e che al tempo stesso raccolga i desiderata di una numerosa popolazione, i suoi crucci quotidiani, i suoi problemi vitali. Mancano occhi e orecchie per comprendere. Non basta un autocrate e non basta un tecnico. La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 25 giugno 2022 | 08:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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