In questi giorni i Collegi docenti, che ancora non l’hanno fatto, si apprestano a deliberare i progetti che consentiranno di accedere ai fondi del PNRR destinati alla scuola 4.0.
Le risorse, una volta tanto, sembrano esserci e sono ingenti, anche se non è facile orientarsi e nemmeno comprendere con precisione l’ammontare totale della somma, cui devono aggiungersi fondi non utilizzati negli scorsi anni.
Grosso modo, i due miliardi si suddividono in una prima quota che andrà al contrasto della dispersione scolastica (già in parte distribuiti), in un’altra di 1,3 miliardi per rendere le aule innovative ed infine in un’ultima tranche di 425 milioni per laboratori destinati alla formazione di professionalità future. I soldi sembrano tanti, ma sono davvero tali?
Come verranno distribuiti tra i vari istituti scolastici? E soprattutto – questa è la domanda fondamentale – garantiranno un miglioramento qualitativo della scuola italiana nel suo complesso? Per rispondere alla prima domanda bisogna preliminarmente chiedersi di quali siano le urgenze da soddisfare in ambito scolastico.
Per semplificare, diciamo che alcune urgenze riguardano le strutture e altre riguardano il personale. L’ultimo rapporto di Legambiente sullo stato del patrimonio edilizio scolastico in Italia (Ecosistema scuola – XXII Rapporto nazionale sulla qualità degli edifici e dei servizi scolastici), mette in luce che “le amministrazioni del Sud dichiarano che quasi il 37% delle scuole necessita di interventi urgenti, mentre quelle delle Isole hanno urgenza di intervenire su oltre la metà degli edifici e al Nord nel 23% dei casi”.
Non va meglio dal punto di vista della sostenibilità energetica: “ad oggi abbiamo quasi il 60% delle scuole nelle ultime due classi energetiche a fronte di uno scarso 6% che è in classe A e B”. I fondi per il recupero e l’ammodernamento dell’edilizia scolastica previsti dal PNRR sono stellarmente lontani da quelli stimati a suo tempo dalla Fondazione Agnelli: 3,9 miliardi di euro nel PNRR contro i 200 miliardi di euro per la Fondazione Agnelli (Rapporto sull’edilizia scolastica, 2019). Quindi, sia per il recupero edilizio sia per la creazione di scuole “innovative” dal punto di vista degli spazi, ci sono risorse modeste – sempre che tali risorse debbano andare a tutti.
Questo è un altro punto dolente del “progetto PNRR”: le risorse, sia quelle per l’edilizia scolastica sia quelle destinate alla creazione di aule 4.0 sono destinate ad una parte della scuola italiana: 100.000 aule innovative sembrano tante ma le classi sono, all’ultima rilevazione del MI, 368.656. E le 216 scuole-modello (o scuole-vetrina, se si è realisti) sono una piccola frazione delle 40.581 sedi che compongono e istituzioni scolastiche del nostro Paese.
Passiamo al personale: clamorosamente insufficiente il personale ATA (anche per l’Associazione nazionale presidi) è vergognosamente sottopagato, come peraltro il personale docente, sempre tra gli ultimi quanto a stipendio nelle classifiche internazionali. L’età media degli insegnanti è di 51 anni (sono i più vecchi d’Europa) con una quota consistente di ultrasessantenni; lo stress correlato al lavoro è purtroppo testimoniato dalle molte notizie di cronaca scolastica. Inoltre la burocrazia pesa sul lavoro di chi dovrebbe essere concentrato sull’insegnare ogni anno di più.
Ma il problema dei problemi è quale debba essere, fuori da ogni retorica vuota, la finalità della scuola.
Mai come oggi la scuola è scuola di classe; ha fallito del tutto la dimensione emancipatoria che la nostra Costituzione le assegna. La diseguaglianza economica cresce e la mobilità sociale esiste soltanto verso il basso e per gli strati medi: il quadro che ci offre l’ultimo Rapporto Oxfam è almeno inquietante: chiunque abbia letto la parte del PNRR dedicata la scuola avrà colto la netta finalizzazione del percorso scolastico al futuro lavorativo degli studenti.
Dunque, è questo il senso dell’educare e dell’istruire? Il tutto si riduce ad un momento propedeutico al lavoro futuro? Nessuno auspica una scuola scollegata dal mondo, ma una scuola subalterna all’accelerazione tecnologica che caratterizza i nostri tempi è insieme mostruosa ed ingenua. O forse mostruosamente ingenua, poiché chi la auspica finge di ignorare che proprio l’accelerazione tecnologica farà sì che le smaglianti aule 4.0 saranno già superate una volta messe a punto e che l’enorme spreco di risorse pubbliche avrà avuto il solo merito di arricchire i fornitori di materiali, i quali, come è noto, si fanno presenti alle confuse istituzioni scolastiche chiamate a gestire i fondi del PNRR con soluzioni “chiavi in mano”.
Verificare per credere: persino il WWF propone il progetto Aule Natura 4.0, “nella versione digitalizzata, in linea con l’attivazione dei fondi messi a disposizione dal PNRR”! La corsa ai guadagni facili e garantiti è certa. Immaginiamo i Collegi docenti “responsabilizzati”, “invitati” a non perdere l’occasione ghiotta, spinti ad incamerare soldi, soldi, soldi.
E speriamo che, nella noia burocratica del Collegio, qualche docente chieda per quale motivo debbano essere rovesciate sulla testa degli insegnanti innovazioni sulla cui efficacia didattica possono persistere legittimi dubbi. Speriamo che qualcuno si ricordi che soltanto un ragazzo su venti (ultima rilevazione OCSE-PISA) è in grado di leggere e comprendere un testo, nonostante siano stati spesi 1,9 miliardi di euro tra il 2014 e il 2021 in innovazione tecnologica.
La grande preoccupazione per le materie STEM dovrebbe essere sormontata dall’allarme per il fatto che troppi giovani diplomati non siano in grado di comprendere un banale articolo di giornale, potrebbe dire qualcun altro. Gli farà eco un collega che ricorderà che la scuola non può creare posti di lavoro, che l’allarmante disoccupazione giovanile in Italia non deriva, se non in piccola parte, da un mismatch tra domanda ed offerta di lavoro ma da tutt’altre cause.
Un altro intervento, che prenda esempio dalla stretta attualità, ricorderà che un Paese in cui l’astensionismo tocchi il 60% dell’elettorato alligna da tempo una crisi educativa profonda, che non verrà risolta né migliorata dal perseverare di una visione tecnocratica e finalizzata al lavoro.
Da almeno trent’anni si coltiva l’illusione del “capitale umano” e dello stretto legame tra istruzione e produzione di ricchezza. Nel frattempo chi è ricco è diventato più ricco, a danno dei più poveri; le tante parole sprecate sull’“inclusione” sono spesso restate lettera morta e nemmeno la pandemia, nonostante i piagnistei e i giuramenti di una classe politica distratta e bugiarda, è riuscita a risolvere il problema semplice delle classi-pollaio.
Nelle scuole italiane molti che lavorano continuano ad impegnarsi e ragionare: abbiamo fiducia che gli insegnanti non abdichino al loro compito critico e che riescano a non farsi strumenti di una visione dell’educazione tecnocratica e, sostanzialmente, reazionaria in nome del “progresso”.
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