I  nostalgici dell’asse Pd-5S

I nostalgici dell’asse Pd-5S

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Mezzogiorno, 1 ottobre 2022 – 08:52 di Paolo Macry Il dibattito sul voto cittadino (su quell’eclatante 50% di astenuti e 40% di grillini) sta partendo con il piede sbagliato. È sbagliato, naturalmente, prendersela in modo generico con gli elettori, quando sappiamo tutti quanto mediocre fosse l’offerta politica che i napoletani hanno trovato nelle schede. Ed è altrettanto sbagliato concentrare la discussione sul reddito di cittadinanza, parlando di «voto di scambio», come se in città — nel centro storico, nell’hinterland — non esistessero vaste fasce di povertà e disoccupazione. Dopotutto, visto da sinistra, il problema non è che nelle urne i napoletani abbiano scelto in larga maggioranza il partito di Conte. È che non hanno scelto il partito di Letta. Sicché, a ragione, bisognerebbe piuttosto discutere su cosa il Pd debba fare oggi: se stringere nuovamente un’alleanza con i cinquestelle o al contrario recuperare il «terzo polo». Un’alternativa più retorica che fattuale, a dire il vero. Con ogni evidenza, soprattutto tra i quadri dirigenti meridionali, sono di gran lunga più numerosi coloro che, da Boccia a Emiliano, da Allodi a Sarracino, rimpiangono lo schema giallorosso (e si ritengono in diritto di recriminare con il segretario dimissionario per il suo rifiuto di imbarcare il M5s nell’alleanza elettorale). Con Conte avremmo potuto vincere, ripetono. Il che, naturalmente, è soltanto un’illazione. Ma soprattutto è il frutto di ragionamenti assai deboli sul piano politico. Il punto non è se la somma Pd più M5s potesse essere il 25 settembre — e possa essere in futuro — maggioritaria (personalmente non lo credo). Il punto che andrebbe discusso con ben altro rigore è se tra le due formazioni politiche, sulla base dell’esperienza recente, sia concepibile e desiderabile un’alleanza. E qui, intendiamoci, non si tratta di rivangare gli attacchi sotto la cintola, le accuse feroci, le calunnie che negli anni scorsi i cinquestelle hanno gettato a piene mani sugli uomini e le donne della sinistra. Non si tratta di rivangare «il partito di Bibbiano», sebbene qualcosa pure dovrebbe significare la violenza di quelle parole. Il problema riguarda i fatti, più che le parole. E cioè se un partito che voglia definirsi riformista, socialdemocratico ed europeo possa immaginarsi in un’alleanza strategica con una forza politica che ha inanellato, nel corso della passata legislatura, valori e provvedimenti illiberali come quelli sognati e ahimè varati da un leggendario Guardasigilli. Una forza politica che ha proposto e praticato il rifiuto delle grandi opere, ivi compreso quel gasdotto Tap che fu infine completato a dispetto delle proteste furibonde degli «ambientalisti» gialli e che oggi fornisce all’Italia un bel pezzo del proprio fabbisogno energetico. Una forza politica che ha bloccato le trivellazioni nell’Adriatico, abbandonate perciò alle lucrose estrazioni dei paesi dell’altra sponda, che rifiuta rigassificatori e termovalorizzatori, che vede come il diavolo l’ipotesi del nucleare. Che insomma costituisce ideologicamente e praticamente un muro miope eretto a difesa del declino e contro lo sviluppo. Una forza politica che ha espresso donne e uomini di singolare incompetenza, ministri che hanno finito per diventare tristi macchiette, manager specializzati nei banchi a rotelle. E la cui classe dirigente, a partire dal suo leader, ha teorizzato e messo in atto il trasformismo più spregiudicato, il passaggio allegro dalla destra alla sinistra, cioè la fine conclamata di qualsivoglia identità. È questo che risulta incomprendibile nel dibattito suscitato dal voto napoletano. È mai possibile discutere delle future alleanze del Pd e della fatale attrazione di Giuseppe Conte senza spendere una parola sulla natura del M5s, su quel che ha combinato in cinque anni di partecipazione ai governi del paese, su quel che ha detto a gran voce nel corso della campagna elettorale («gratuitamente!»), su quel che dice oggi evocando sforamenti di bilancio, bonus generalizzati, bond europei, cioè favole, per non chiamarle bugie? È sufficiente constatare che una parte dell’elettorato di sinistra si è gettato nelle braccia dei pentastellati per ritenerli di sinistra? E allora perché non allearsi anni fa con la Lega, quando succhiava a man bassa consensi ai Ds perfino nelle roccaforti rosse del nord? C’è un solo argomento che potrebbe dar conto di simili bizzarrie. Che il Pd (o una sua larga parte) sia in realtà assai simile al M5s. Che sia fatto della stessa pasta. Che abbia la medesima ispirazione demagogica e populista. Che sia egualmente sospettoso nei confronti dello sviluppo e del mercato. Che non abbia mai abbandonato la matrice statalista delle sue componenti ex-comuniste ed ex-democristiane e perciò faccia proprio per convinzione l’assistenzialismo di Conte. Che, come il M5s, sia propenso a governare purchessia e con chicchessia. Che addirittura ne condivida i valori, compreso il giustizialismo, il doppio standard morale, la propensione a celare la verità dietro la demagogia. Ma il nuovo matrimonio tra Pd e Cinquestelle potrebbe anche essere il frutto di un’ipotesi cinica, eppure efficace. Che cioè in una città sfibrata da anni di malgoverno, in una città che ha eletto e rieletto il peggior sindaco dell’età repubblicana e che oggi accetta in silenzio di essere guidata, bacchettata, perfino insolentita da un «governatore» autoritario, ebbene può essere che a Napoli un’alleanza che altrove, a Milano, a Bologna, apparirebbe contro natura qui invece venga accolta bene, magari con entusiasmo. Il che (voglio ripetermi) non significa prendersela genericamente con i napoletani. Ma un pò, forse, con le élite sociali, con il ceto imprenditoriale, con l’intellighentia, con la classe media. 1 ottobre 2022 | 08:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-10-01 06:52:00, Mezzogiorno, 1 ottobre 2022 – 08:52 di Paolo Macry Il dibattito sul voto cittadino (su quell’eclatante 50% di astenuti e 40% di grillini) sta partendo con il piede sbagliato. È sbagliato, naturalmente, prendersela in modo generico con gli elettori, quando sappiamo tutti quanto mediocre fosse l’offerta politica che i napoletani hanno trovato nelle schede. Ed è altrettanto sbagliato concentrare la discussione sul reddito di cittadinanza, parlando di «voto di scambio», come se in città — nel centro storico, nell’hinterland — non esistessero vaste fasce di povertà e disoccupazione. Dopotutto, visto da sinistra, il problema non è che nelle urne i napoletani abbiano scelto in larga maggioranza il partito di Conte. È che non hanno scelto il partito di Letta. Sicché, a ragione, bisognerebbe piuttosto discutere su cosa il Pd debba fare oggi: se stringere nuovamente un’alleanza con i cinquestelle o al contrario recuperare il «terzo polo». Un’alternativa più retorica che fattuale, a dire il vero. Con ogni evidenza, soprattutto tra i quadri dirigenti meridionali, sono di gran lunga più numerosi coloro che, da Boccia a Emiliano, da Allodi a Sarracino, rimpiangono lo schema giallorosso (e si ritengono in diritto di recriminare con il segretario dimissionario per il suo rifiuto di imbarcare il M5s nell’alleanza elettorale). Con Conte avremmo potuto vincere, ripetono. Il che, naturalmente, è soltanto un’illazione. Ma soprattutto è il frutto di ragionamenti assai deboli sul piano politico. Il punto non è se la somma Pd più M5s potesse essere il 25 settembre — e possa essere in futuro — maggioritaria (personalmente non lo credo). Il punto che andrebbe discusso con ben altro rigore è se tra le due formazioni politiche, sulla base dell’esperienza recente, sia concepibile e desiderabile un’alleanza. E qui, intendiamoci, non si tratta di rivangare gli attacchi sotto la cintola, le accuse feroci, le calunnie che negli anni scorsi i cinquestelle hanno gettato a piene mani sugli uomini e le donne della sinistra. Non si tratta di rivangare «il partito di Bibbiano», sebbene qualcosa pure dovrebbe significare la violenza di quelle parole. Il problema riguarda i fatti, più che le parole. E cioè se un partito che voglia definirsi riformista, socialdemocratico ed europeo possa immaginarsi in un’alleanza strategica con una forza politica che ha inanellato, nel corso della passata legislatura, valori e provvedimenti illiberali come quelli sognati e ahimè varati da un leggendario Guardasigilli. Una forza politica che ha proposto e praticato il rifiuto delle grandi opere, ivi compreso quel gasdotto Tap che fu infine completato a dispetto delle proteste furibonde degli «ambientalisti» gialli e che oggi fornisce all’Italia un bel pezzo del proprio fabbisogno energetico. Una forza politica che ha bloccato le trivellazioni nell’Adriatico, abbandonate perciò alle lucrose estrazioni dei paesi dell’altra sponda, che rifiuta rigassificatori e termovalorizzatori, che vede come il diavolo l’ipotesi del nucleare. Che insomma costituisce ideologicamente e praticamente un muro miope eretto a difesa del declino e contro lo sviluppo. Una forza politica che ha espresso donne e uomini di singolare incompetenza, ministri che hanno finito per diventare tristi macchiette, manager specializzati nei banchi a rotelle. E la cui classe dirigente, a partire dal suo leader, ha teorizzato e messo in atto il trasformismo più spregiudicato, il passaggio allegro dalla destra alla sinistra, cioè la fine conclamata di qualsivoglia identità. È questo che risulta incomprendibile nel dibattito suscitato dal voto napoletano. È mai possibile discutere delle future alleanze del Pd e della fatale attrazione di Giuseppe Conte senza spendere una parola sulla natura del M5s, su quel che ha combinato in cinque anni di partecipazione ai governi del paese, su quel che ha detto a gran voce nel corso della campagna elettorale («gratuitamente!»), su quel che dice oggi evocando sforamenti di bilancio, bonus generalizzati, bond europei, cioè favole, per non chiamarle bugie? È sufficiente constatare che una parte dell’elettorato di sinistra si è gettato nelle braccia dei pentastellati per ritenerli di sinistra? E allora perché non allearsi anni fa con la Lega, quando succhiava a man bassa consensi ai Ds perfino nelle roccaforti rosse del nord? C’è un solo argomento che potrebbe dar conto di simili bizzarrie. Che il Pd (o una sua larga parte) sia in realtà assai simile al M5s. Che sia fatto della stessa pasta. Che abbia la medesima ispirazione demagogica e populista. Che sia egualmente sospettoso nei confronti dello sviluppo e del mercato. Che non abbia mai abbandonato la matrice statalista delle sue componenti ex-comuniste ed ex-democristiane e perciò faccia proprio per convinzione l’assistenzialismo di Conte. Che, come il M5s, sia propenso a governare purchessia e con chicchessia. Che addirittura ne condivida i valori, compreso il giustizialismo, il doppio standard morale, la propensione a celare la verità dietro la demagogia. Ma il nuovo matrimonio tra Pd e Cinquestelle potrebbe anche essere il frutto di un’ipotesi cinica, eppure efficace. Che cioè in una città sfibrata da anni di malgoverno, in una città che ha eletto e rieletto il peggior sindaco dell’età repubblicana e che oggi accetta in silenzio di essere guidata, bacchettata, perfino insolentita da un «governatore» autoritario, ebbene può essere che a Napoli un’alleanza che altrove, a Milano, a Bologna, apparirebbe contro natura qui invece venga accolta bene, magari con entusiasmo. Il che (voglio ripetermi) non significa prendersela genericamente con i napoletani. Ma un pò, forse, con le élite sociali, con il ceto imprenditoriale, con l’intellighentia, con la classe media. 1 ottobre 2022 | 08:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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