I sette mesi di (studiato) logoramento che hanno segnato la strada del governo Draghi

I sette mesi di (studiato) logoramento che hanno segnato la strada del governo Draghi

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di Roberto Gressi

Nel libro di Tommaso Labate i retroscena della battaglia per il Quirinale

Quello che è successo, almeno a spanne, lo sappiamo ormai più o meno tutti. Il governo Draghi è caduto, siamo nel pieno della prima campagna elettorale estiva della storia repubblicana, epilogo non del tutto imprevedibile di un pentolone dove bollivano furbizie, ambizioni, sgambetti, voglia di menare le mani, tentativi di alleanze e divorzi brutali, che si sono moltiplicati al seguito della pirotecnica partita per scegliere l’inquilino del Quirinale, conclusa con la riconferma di Sergio Mattarella. Ma come e perché tutto questo sia avvenuto si perde e si confonde, soprattutto a pochi passi dal voto, nell’abilità della politica nel non lasciare tracce, o per lo meno nel cancellarle. Il ruolo di Arianna in questo dedalo di retroscena se lo prende Tommaso Labate, giornalista avvezzo a non farsi imbrogliare, che sbarca in libreria con Ultima fermata, per l’editrice Solferino.

La tesi suggestiva che anima il racconto dei sette mesi che vanno dalla conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio fino alle dimissioni di Mario Draghi è che non è stata una concatenazione rapida di sfortunati eventi a portare alla caduta del governo più apprezzato dagli italiani, per lo meno dell’intera legislatura. Ma uno studiato logoramento, iniziato proprio con la battaglia per il Quirinale. Perché la scelta finale, largamente condivisa, ha sì segnato un’intesa importante, ma non ha lenito le ferite di quei giorni, che non si sono mai rimarginate.

E in effetti non è facile credere che l’intero castello di solida credibilità, interna e internazionale, sia crollato per quello che ha detto a «Un giorno da pecora» di Rai Radio 1, alla fine di giugno, il sociologo Domenico De Masi. Aveva raccontato di un suo colloquio con Beppe Grillo, nel quale il garante dei Cinque Stelle parlava delle sue telefonate con il premier, che si lamentava di Giuseppe Conte e chiedeva che fosse sollevato dal suo ruolo di timoniere del Movimento. Smentite, tensioni, ruvide telefonate pacificatrici, che probabilmente avrebbero alla fine sortito l’effetto di stemperare gli animi e di archiviare l’incidente, se non ci fosse stato un pregresso di asprezze legato ai giorni del Colle. Né è facile digerire che l’intera esperienza dell’unità nazionale, con il Pnrr davanti e con il Covid non ancora alle spalle, possa essere stata spazzata via per l’incapacità di trovare un accordo sulla costruzione del termovalorizzatore destinato a smaltire i rifiuti di Roma. E resta un mistero senza risposta la riunione raccontata da Labate, convocata da Berlusconi ad Arcore ben prima della crisi. Voleva preparare al volo otto spot di due minuti l’uno dal sapore elettorale e destinati al web. Per lanciare la proposta di pensioni minime a mille euro e promettere di piantare un milione di alberi.

Eccola allora la storia della guerra sotterranea e senza quartiere, ricca di retroscena, dettagli e curiosità, che si è consumata durante la corsa al Colle. Ha fatto fibrillare i Cinque Stelle ben prima della scissione ad opera del ministro degli Esteri. Luigi Di Maio si batteva per Mario Draghi e Conte non ne voleva sapere. Conte di accordava con Matteo Salvini per lanciare Elisabetta Belloni e Di Maio, insieme a Matteo Renzi, era il primo che si metteva di traverso. Enrico Letta cercava di convincere il leader grillino su una strada comune e lui faceva emergere non solo la sua contrarietà a una promozione del premier, ma tradiva anche una certa irritazione per quella che interpretava come una linea egemonica del Pd nei suoi confronti. Fino a un aperitivo a tre in casa di Roberto Speranza, dove alla fine Conte diceva a chiare lettere a Letta: «Noi Draghi non lo votiamo». Una progressiva e reciproca presa di distanza, nel merito ma soprattutto nei toni, che ha gettato il seme della caduta del governo, e amplificata poco dopo dall’invasione dell’Ucraina, con Letta e Conte su fronti talmente divergenti da rendere non più proponibile l’idea del campo largo.

La partita del Quirinale ha logorato pesantemente anche i rapporti nel centrodestra, con i franchi tiratori che impallinano Elisabetta Casellati, con Salvini che rifiuta l’intesa su Pier Ferdinando Casini, con lo stesso leader della Lega che converge su Mattarella rompendo con Giorgia Meloni . «Il centrodestra non esiste più», dirà la presidente di Fratelli d’Italia. Ma se l’ultimo atto della crisi di governo ha l’effetto di accrescere le differenze nell’area progressista, è invece cemento per rinsaldare l’alleanza avversaria. La scelta di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini di sfiduciare di fatto Draghi e di dare a Giorgia Meloni le tanto desiderate elezioni anticipate sana miracolosamente tutte le ferite, almeno fino al voto.

Tommaso Labate è uno di quei giornalisti (tanti) che non lasciano mai a piedi il Corriere. Se una notizia arriva tardi, se è difficile da verificare, non si tira mai indietro, anche se sta su un treno o magari in un giorno di vacanza. Ultima fermata segue quello stile, con la ricerca puntigliosa e non faziosa di come sono andate veramente le cose, con un occhio attento ai particolari, con una scrittura di facile lettura anche nella complessità degli argomenti e nella concatenazione frenetica dei fatti. Il libro è anche un documento, che cuce una storia ancora calda e sensibile della nostra vicenda politica, e aiuta a capire non solo quello che è successo, ma anche quello che deve ancora succedere.

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15 settembre 2022 (modifica il 15 settembre 2022 | 21:49)

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, 2022-09-15 21:05:00, Nel libro di Tommaso Labate i retroscena della battaglia per il Quirinale, Roberto Gressi

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