Mezzogiorno, 27 marzo 2022 – 09:34 di Mario Rusciano Prevedibile che gli episodi di maccartismo, di cui da qualche tempo è protagonista il presidente De Luca, aprissero un dibattito a tutto campo. Sia sul Corriere del Mezzogiorno sia su altri giornali e in varie occasioni in cui intellettuali e politici manifestano disappunto per questi episodi, estranei alla cultura e alla dialettica democratica. Ora però, oltre al criticare carattere e stile di De Luca, occorre andare all’origine di simili atteggiamenti: l’ordinamento italiano dei rapporti Stato/Regioni. È impensabile che, nella Repubblica «una e indivisibile», il capo d’un’istituzione territoriale (Regione o Comune) osi disattendere lo spirito fondamentale del sistema costituzionale. Certo la contraddizione nasce dalla riforma del titolo V della Carta, introdotta dal centro-sinistra nel 2001 con molta fretta, poca meditazione e nessuna lungimiranza. Bisognava all’epoca contrastare il secessionismo, bandiera identitaria della Lega Nord. Un’operazione talmente sbagliata da ottenere l’effetto contrario: consentire alla stessa Lega di approfittarne. Non paga infatti della quantità e importanza delle materie trasferite dallo Stato alle Regioni – persino parificandone, per molte di esse, il potere legislativo – la Lega è partita proprio dalla riforma del 2001 per alzare la posta e avanzare la pretesa di arrivare addirittura alla cosiddetta «autonomia regionale differenziata»: a vantaggio delle Regioni settentrionali e a scapito del Mezzogiorno, meno dotato e più arretrato. L’ipotesi di quest’ulteriore riforma è stata per ora messa in frigorifero per la pandemia, ma non è affatto tramontata. Prima o poi la destra che governa quasi tutte le Regioni del Nord – Lega in testa – chiederà di scongelarla, specie se tra un anno vincesse le elezioni politiche. È inutile dire che la riforma del 2001 è stata criticata, dai costituzionalisti più avveduti, appunto per la ricordata contraddizione. Le sue esiziali conseguenze però sono diventate eclatanti con la pandemia, durante la quale sono stati frequenti i conflitti tra Stato centrale e Regioni – Campania in prima linea – circa la competenza delle misure sanitarie da adottare. Chiarita soltanto, per quanto possibile, dall’equilibrato intervento della Corte Costituzionale. Peraltro i conflitti, attuali o potenziali, non riguardano soltanto la sanità; investono pure lavoro e formazione, beni culturali, ambiente ecc.. Figuriamoci cosa potrà succedere quando si dovranno attuare i progetti finanziati dai fondi europei del Next Generation Eu. È evidente che solo il legislatore costituzionale può eliminare un’oggettiva confusione di tal genere. E dovrà farlo al più presto, perché è palesemente irrazionale mettere sullo stesso piano lo Stato e le Regioni. In questa direzione si muove un disegno di legge costituzionale d’iniziativa popolare, che mira a riformare la riforma sbagliata del 2001. L’ha elaborato Massimo Villone, illustre costituzionalista dell’Università di Napoli Federico II, già senatore, ed è stato sottoscritto da molti altri autorevoli giuristi e intellettuali. Il titolo del disegno di legge appare prolisso, ma solo perché esplicito: «Modifica dell’art. 116 comma 3 della Costituzione, concernente il riconoscimento alle Regioni di forme e condizioni particolari di autonomia, e dell’art. 117, commi 1, 2 e 3, con l’introduzione di una clausola di supremazia della legge statale e lo spostamento di alcune materie di potestà legislativa concorrente alla potestà esclusiva dello Stato». Nella relazione di accompagnamento si chiarisce che il disegno di legge tende a «rafforzare il ruolo dello Stato a tutela dell’eguaglianza e dei diritti, con la formulazione e implementazione di politiche pubbliche forti finalizzate…a consolidare l’unità del paese…mentre una pericolosa spinta in senso contrario si ricava dalle persistenti richieste di autonomia differenziata avanzate da alcune Regioni». Questa illogica contraddizione istituzionale, da rimuovere in tempi brevi, provoca la strana malattia di alcuni presidenti di Regione, che non a caso si fanno chiamare «governatori»: il «sovranismo regionale». A dir poco fuori luogo nell’epoca difficile in cui viviamo, che esige solidarietà dai cittadini e compattezza dalla classe dirigente a tutti i livelli. Chi ha seguito venerdì scorso il monologo televisivo settimanale del presidente De Luca è rimasto impressionato dal lungo tempo da lui dedicato alla geopolitica e a come far cessare la guerra tra Russia e Ucraina, in polemica con l’Ue e coi governi occidentali. In altre occasioni la sua polemica ha preso di mira il Governo o singoli ministri. Eppure, nonostante le opere straordinarie del suo governo di cui costantemente si compiace nel raccontarle, i problemi della Campania non sono pochi e non sono piccoli. Qualche esempio: nella sanità, tempi biblici per una visita specialistica; ambulanze senza medici e infermieri. Nel lavoro: stallo organizzativo dei centri per l’impiego. Nella cultura: opachi i criteri d’attribuzione dei contributi pubblici a istituzioni culturali grandi e piccole; opaca la vicenda della Scabec. È inutile illudersi: non basta affidarsi al senso di responsabilità istituzionale e alla sobrietà dei singoli eletti. Occorre prima riformare la Costituzione e poi riscrivere sia il sistema elettorale sia il ruolo dei presidenti e dei Consigli regionali per riequilibrarne i poteri. Solo così sarà possibile guarire l’insano sovranismo regionale. 27 marzo 2022 | 09:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-03-27 07:35:00, Mezzogiorno, 27 marzo 2022 – 09:34 di Mario Rusciano Prevedibile che gli episodi di maccartismo, di cui da qualche tempo è protagonista il presidente De Luca, aprissero un dibattito a tutto campo. Sia sul Corriere del Mezzogiorno sia su altri giornali e in varie occasioni in cui intellettuali e politici manifestano disappunto per questi episodi, estranei alla cultura e alla dialettica democratica. Ora però, oltre al criticare carattere e stile di De Luca, occorre andare all’origine di simili atteggiamenti: l’ordinamento italiano dei rapporti Stato/Regioni. È impensabile che, nella Repubblica «una e indivisibile», il capo d’un’istituzione territoriale (Regione o Comune) osi disattendere lo spirito fondamentale del sistema costituzionale. Certo la contraddizione nasce dalla riforma del titolo V della Carta, introdotta dal centro-sinistra nel 2001 con molta fretta, poca meditazione e nessuna lungimiranza. Bisognava all’epoca contrastare il secessionismo, bandiera identitaria della Lega Nord. Un’operazione talmente sbagliata da ottenere l’effetto contrario: consentire alla stessa Lega di approfittarne. Non paga infatti della quantità e importanza delle materie trasferite dallo Stato alle Regioni – persino parificandone, per molte di esse, il potere legislativo – la Lega è partita proprio dalla riforma del 2001 per alzare la posta e avanzare la pretesa di arrivare addirittura alla cosiddetta «autonomia regionale differenziata»: a vantaggio delle Regioni settentrionali e a scapito del Mezzogiorno, meno dotato e più arretrato. L’ipotesi di quest’ulteriore riforma è stata per ora messa in frigorifero per la pandemia, ma non è affatto tramontata. Prima o poi la destra che governa quasi tutte le Regioni del Nord – Lega in testa – chiederà di scongelarla, specie se tra un anno vincesse le elezioni politiche. È inutile dire che la riforma del 2001 è stata criticata, dai costituzionalisti più avveduti, appunto per la ricordata contraddizione. Le sue esiziali conseguenze però sono diventate eclatanti con la pandemia, durante la quale sono stati frequenti i conflitti tra Stato centrale e Regioni – Campania in prima linea – circa la competenza delle misure sanitarie da adottare. Chiarita soltanto, per quanto possibile, dall’equilibrato intervento della Corte Costituzionale. Peraltro i conflitti, attuali o potenziali, non riguardano soltanto la sanità; investono pure lavoro e formazione, beni culturali, ambiente ecc.. Figuriamoci cosa potrà succedere quando si dovranno attuare i progetti finanziati dai fondi europei del Next Generation Eu. È evidente che solo il legislatore costituzionale può eliminare un’oggettiva confusione di tal genere. E dovrà farlo al più presto, perché è palesemente irrazionale mettere sullo stesso piano lo Stato e le Regioni. In questa direzione si muove un disegno di legge costituzionale d’iniziativa popolare, che mira a riformare la riforma sbagliata del 2001. L’ha elaborato Massimo Villone, illustre costituzionalista dell’Università di Napoli Federico II, già senatore, ed è stato sottoscritto da molti altri autorevoli giuristi e intellettuali. Il titolo del disegno di legge appare prolisso, ma solo perché esplicito: «Modifica dell’art. 116 comma 3 della Costituzione, concernente il riconoscimento alle Regioni di forme e condizioni particolari di autonomia, e dell’art. 117, commi 1, 2 e 3, con l’introduzione di una clausola di supremazia della legge statale e lo spostamento di alcune materie di potestà legislativa concorrente alla potestà esclusiva dello Stato». Nella relazione di accompagnamento si chiarisce che il disegno di legge tende a «rafforzare il ruolo dello Stato a tutela dell’eguaglianza e dei diritti, con la formulazione e implementazione di politiche pubbliche forti finalizzate…a consolidare l’unità del paese…mentre una pericolosa spinta in senso contrario si ricava dalle persistenti richieste di autonomia differenziata avanzate da alcune Regioni». Questa illogica contraddizione istituzionale, da rimuovere in tempi brevi, provoca la strana malattia di alcuni presidenti di Regione, che non a caso si fanno chiamare «governatori»: il «sovranismo regionale». A dir poco fuori luogo nell’epoca difficile in cui viviamo, che esige solidarietà dai cittadini e compattezza dalla classe dirigente a tutti i livelli. Chi ha seguito venerdì scorso il monologo televisivo settimanale del presidente De Luca è rimasto impressionato dal lungo tempo da lui dedicato alla geopolitica e a come far cessare la guerra tra Russia e Ucraina, in polemica con l’Ue e coi governi occidentali. In altre occasioni la sua polemica ha preso di mira il Governo o singoli ministri. Eppure, nonostante le opere straordinarie del suo governo di cui costantemente si compiace nel raccontarle, i problemi della Campania non sono pochi e non sono piccoli. Qualche esempio: nella sanità, tempi biblici per una visita specialistica; ambulanze senza medici e infermieri. Nel lavoro: stallo organizzativo dei centri per l’impiego. Nella cultura: opachi i criteri d’attribuzione dei contributi pubblici a istituzioni culturali grandi e piccole; opaca la vicenda della Scabec. È inutile illudersi: non basta affidarsi al senso di responsabilità istituzionale e alla sobrietà dei singoli eletti. Occorre prima riformare la Costituzione e poi riscrivere sia il sistema elettorale sia il ruolo dei presidenti e dei Consigli regionali per riequilibrarne i poteri. Solo così sarà possibile guarire l’insano sovranismo regionale. 27 marzo 2022 | 09:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,