Il bello dei piccoli Comuni: ecco le comunità sostenibili. «Noi ce la facciamo»

Il bello dei piccoli Comuni: ecco le comunità sostenibili. «Noi ce la facciamo»

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di Elena Comelli

Buone pratiche nel Rapporto al centro del seminario di Fondazione Symbola: 44 esperienze in 11 ambiti: da agricoltura a mobilità, scuola e gestione acque. «Unendo tradizione e innovazione si torna ad essere attrattivi»

Ci sono gli imprenditori sociali di Humus Job, che hanno creato nel Cuneese il primo servizio di job sharing agricolo. C’è la rete 12-to-Many per la valorizzazione sostenibile del patrimonio boschivo in Alta Carnia. C’è la scuola di Pacentro e il progetto condiviso per il nuovo plesso dopo il terremoto dell’aquilano. C’è la app Linfa per acquisti online di beni e servizi inserita nel progetto AttivAree Valli Resilienti. C’è South Working che con Open Fiber ha siglato un memorandum per sviluppare il lavoro agile soprattutto in aree spesso svantaggiate. E ci sono tante altre soluzioni innovative per ridare vita ai piccoli comuni, all’interno dell’ultimo rapporto di Fondazione Symbola con Fondazione Hubruzzo, che sarà anche al centro del Festival della Soft Economy e del Seminario Estivo organizzato a Treia, nelle Marche, e comincia il 7 luglio.

Il tema di quest’anno è «La forza della sostenibilità in Italia oggi – Coesione, innovazione, libertà». La pandemia ha fatto riscoprire la voglia di vivere in campagna o in montagna, lontani dalla densità urbana, ma ha fatto anche comprendere la necessità di assicurare condizioni di abitabilità ai piccoli comuni (quelli con meno di 5000 abitanti) a cominciare da una buona connessione dati, dai trasporti pubblici e dai servizi sanitari e scolastici. Questi 5500 borghi sparsi sulla carta geografica della penisola, così remoti ma al tempo stesso così centrali nell’identità italiana, sono inesorabilmente dissanguati dalla perdita di abitanti, che nell’ultimo decennio sono calati sotto i 10 milioni di persone. La bassa densità di popolazione, unita a difficoltà di tipo geografico, rende molte di queste zone a fallimento di mercato, tanto che sono ormai 300 i borghi italiani in cui non c’è più nemmeno un bar né un negozio di generi alimentari, mentre la penetrazione della banda larga nei piccoli comuni arriva solo al 17,4 per cento delle utenze servite, contro il 66,9 per cento della media nazionale.

I fenomeni di abbandono sono legati da un lato allo sfilacciamento del tessuto produttivo, con la crisi di molti distretti, e dall’altro alla riduzione della presenza pubblica, con l’accentramento nelle città dei servizi di base, dai poli scolastici ai presidi ospedalieri. Una dinamica che comporta un forte invecchiamento della popolazione, con il rischio di accelerare una spirale in cui cause ed effetti si rincorrono: criticità demografiche che risiedono e al tempo stesso causano una scarsa attrattività dei paesi.

«Per farli rinascere è inutile abbandonarsi alla nostalgia, ma si devono invece coniugare tradizione e innovazione, perché non c’è futuro per questi borghi senza la tecnologia e senza la sostenibilità», spiega Domenico Sturabotti, autore del rapporto. «Le nuove tecnologie consentono di ridurre i costi dei servizi essenziali, creando piattaforme per mettere i piccoli comuni in rete e ottimizzare le risorse a disposizione, aumentando l’offerta senza pesare troppo sui bilanci pubblici», ragiona Sturabotti. Oltre alle connessioni a banda larga, però, serve anche la fantasia di creare nuovi modelli per l’utilizzo delle risorse, il lavoro, la sanità, l’istruzione e l’amministrazione pubblica, per attrarre i giovani e creare nuove imprese.

La startup sociale

Comunità energetiche, mobilità dolce, turismo sostenibile possono essere le chiavi per il rilancio di questi territori, insieme con i nuovi metodi di organizzazione del lavoro, come dimostra Humus Job, uno dei 44 esempi di buone pratiche illustrati nel rapporto di Symbola. Startup innovativa a vocazione sociale nata nel marzo 2019 in Valle Grana, nel Cuneese, Humus Job incentiva l’assunzione di personale con contratti regolari tra le piccole aziende agricole, grazie alla formula del contratto di rete che consente la condivisione della manodopera. «Il contratto di rete è un’idea ancora poco diffusa, perfetta per territori agricoli ad alta frammentazione, perché risponde a un bisogno reale delle aziende», spiega Elena Elia, co-fondatrice della startup assieme a Claudio Naviglia. Il meccanismo permette alle piccole e medie imprese di assumere la manodopera di cui hanno bisogno con un contratto che offre la possibilità di distaccare il lavoratore sulle varie aziende della rete, a seconda delle fasi di coltivazione e con un notevole risparmio economico.

Percorsi

Nata in origine dall’esigenza di integrare i lavoratori immigrati nella comunità della valle, ora Humus Job ha 2800 lavoratori iscritti alla sua piattaforma e lavora con più di 40 imprese aderenti ai contratti di rete, non solo nel Cuneese ma anche in altre aree del Paese, soprattutto a Sud, accompagnando la costruzione delle reti a percorsi di formazione e rilasciando un bollino con il marchio «Lavoro 100% etico», specifico per il lavoro in agricoltura. Come le altre buone pratiche presentate nel rapporto, la soluzione proposta da Humus Job per riportare il lavoro agricolo in una dimensione più umana e sostenibile è perfettamente replicabile, ma deve essere sempre accompagnata dalla partecipazione di tutti gli attori presenti sul territorio, che è il punto centrale per il successo di qualsiasi progetto di rivitalizzazione.

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4 luglio 2022 (modifica il 4 luglio 2022 | 23:07)

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, 2022-07-04 21:51:00, Buone pratiche nel Rapporto al centro del seminario di Fondazione Symbola: 44 esperienze in 11 ambiti: da agricoltura a mobilità, scuola e gestione acque. «Unendo tradizione e innovazione si torna ad essere attrattivi» , Elena Comelli

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