Il pedagogista nelle scuole, quale funzione? Non serve solo per risolvere i problemi legati a BES e DSA

Il pedagogista nelle scuole, quale funzione? Non serve solo per risolvere i problemi legati a BES e DSA

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Il processo educativo di una persona (qualsiasi sia l’età anagrafica della persona) è un processo di attività molto ampio e da tempo antichissimo i leader della società sono stati coinvolti in questa attività. Ciò significa che l’educazione delle future generazioni e il contenuto dell’organizzazione dell’educazione è importante non solo per definire la maturità dell’individuo, ma anche per lo sviluppo complessivo della società. L’articolo affronta i problemi legati proprio alla tutela della professione come tutela della comunità; alle prospettive dei pedagogisti, al ruolo nelle equipe che operano nelle scuole; al ruolo della pedagogia professionale in Italia. Parole chiave dell’articolo intervista ad Alessandro Bozzato, presidente nazionale dell’UnIPed, l’Unione Italiana Pedagogisti: insegnante, requisiti della personalità dell’insegnante, professione pedagogica in una società democratica, importanza e ruolo della professione docente oggi.

Tutela della professione come tutela della comunità. In che senso professore Bozzato?

«Il pedagogista si trova al centro di gravi decisioni ed è spesso portato a dover operare in assenza di tutele e di riconoscimento. Questo succede in vari ambiti professionali: negli enti locali, ad esempio, capita che ci siano pedagogisti con laurea magistrale che accettano di venire inquadrati con un profilo professionale “C”, cioè di non riconoscimento del titolo di studio, perché lavorano come “educatori di strada”. A titolo comparativo, il diploma di assistente sociale, ad esempio, prevede livello superiore, cioè “D”, già al momento dell’assunzione.
Situazioni analoghe si verificano all’interno di realtà di privato sociale, nei tribunali, nelle scuole, eccetera. Nella scuola, in particolare, il pedagogista è considerato in modo altalenante: a volte si pensa al pedagogista come a una persona con una professionalità non ben definita, altre volte lo si ricerca esclusivamente per la soluzione di problemi legati a BES o DSA. In una situazione di mancato riconoscimento professionale e sociale, è la comunità stessa che si trova ad essere privata di un punto di riferimento connotato per conoscenze specifiche e funzioni. Nei periodi di crisi, specialmente quelli degli ultimi tre anni, si è avuta chiara la percezione di una struttura sociale che girava a vuoto, alla ricerca di risposte educative che fossero le più sicure, le più efficaci, le più economiche, le più rapide, le più convenienti, e nel farlo ci si è rivolti ai soggetti più disparati: a psicologi, a sociologi, medici, giornalisti, opinionisti e anche a generali degli alpini. La valorizzazione delle specificità e delle competenze ha una ricaduta positiva sul corpo sociale, non sul singolo professionista. C’è davvero bisogno di un mutamento di prospettiva: si deve passare dall’idea della professione come azione del singolo a quella di funzione integrata all’interno di una comunità inclusiva. E questo cambiamento, va detto, è parte fondativa della pratica pedagogica.».

Quale il ruolo della pedagogia professionale in Italia?

«La pedagogia professionale, cioè il pedagogista che lavora in modo autonomo, resta il grande campo di lavoro che permette lo sviluppo sia in senso epistemologico che in termini di riconoscibilità funzionale; come ricorda Crispiani, l’epistemologia pedagogica si sviluppa nel modo delle professioni, e in effetti l’osservazione quotidiana lo conferma, sia dal punto di vista della prospettiva assiologica, che da quello della prospettiva evolutiva). Grazie al piccolo esercito di pedagogisti clinici, pedagogisti giuridici e consulenti pedagogici, in Italia si iniziano a riconoscere specifiche funzioni e competenze con peculiarità distintive e qualificanti. Preciso che parlo sempre di lavoratori autonomi e mai di liberi professionisti, perché quella del Pedagogista è una professione “non ordinistica”, regolamentata dalla legge 4/2013. Si tratta cioè di una professione che non ha un albo né un ordine, e che viene tutelata direttamente da chi opera sul campo ovvero dalle associazioni professionali di pedagogisti. A ciò si associa il non riconoscimento della prestazione del pedagogista in ambito di sostegno alla famiglia: il supporto in caso di DSA, lavoro con spettro autistico, ADHD, valutazione funzionale, eccetera, non viene considerato come spesa deducibile. Nella pratica quotidiana, ricorrere al pedagogista per urgenze o necessità educative non gode della considerazione riservata, ad esempio, all’iscrizione a una squadra di calcio o alla frequenza in una palestra di fitness».

La valutazione scolastica: in che modo è possibile parlare di consulenza pedagogica?

«Non è solo una questione di docimologia, la valutazione a scuola ha bisogno di un pensiero che vada a chiarire la sua funzione. Non si tratta solo di capire se sia meglio valutare con voti, giudizi, con prospettiva sincronica o diacronica. La consulenza pedagogica è indispensabile per aiutare a capire quale sia lo scopo, il vero scopo, della valutazione. Capire cosa si vuole davvero valutare e comprendere se il senso sia nell’espressione di un giudizio o nella valutazione del contributo del docente al raggiungimento di obiettivi. La scelta dell’obiettivo è di per sé un indicatore di valutazione, anche se a volte non ci si dà peso.».

Quali prospettive, oggi,  prof. Alessandro Bozzato, dei pedagogisti e quale il loro ruolo nelle equipe che operano nelle scuole?

«Mi esprimo poco perché siamo in una fase di “work in progress”, ma guardo con fiducia alla continuazione del lavoro che abbiamo iniziato (noi di Uniped e altre associazioni di pedagogisti) con il MIUR nel periodo della pandemia. Va ricordato che in quel periodo, grazie all’interessamento diretto delle associazioni professionali e al coinvolgimento del CUNFS e della SIPED, è stato stilato un protocollo d’intesa per l’inserimento progressivo (a progetto) di pedagogisti scolastici per il supporto delle situazioni critiche: povertà educativa, dispersione scolastica, eccetera. Il dialogo si era interrotto con l’avvicendamento governativo, ma pare ci sia la volontà di riprenderlo e di giungere progressivamente a una definizione. Mi permetto di sottolineare che si tratterebbe di una misura che contribuirebbe a semplificare la vita scolastica di studenti e docenti».

Quali risultati al termine del convegno nazionale di Roma?

«Motivazione. Entusiasmo e fiducia. Esiste una comunità che si ritrova e si aggrega spontaneamente per competenze e per affinità. Al termine di ogni convegno si torna a casa con una valigetta piena di propositi e di progetti. Non ho la presunzione (e neanche l’illusione) di iniziare e portare a termine ogni suggerimento e ogni idea raccolta, ma ho comunque fatto un carico di energia che consente di continuare a lavorare sui temi di pertinenza e di interesse pedagogico. Mi pare di vedere che la platea di riferimento si sta allargando, ascolto voci nuove, e vedo facce che non avevo conosciuto prima. Leggo nuovi contributi, nuove pubblicazioni, si aprono nuovi campi di ricerca e di approfondimento. La pedagogia professionale vive, occasioni come questo convegno servono a noi per ricordarlo, ma soprattutto alla servono collettività per venirne a conoscenza».

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