Immigrati, la lezione dell’America e cosa succede in Italia: perché serve andare oltre i luoghi comuni

Immigrati, la lezione dell’America e cosa succede in Italia: perché serve andare oltre i luoghi comuni

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Questa è la prefazione che Federico Rampini ha scritto per «Ipocrisea», il libro che la giornalista Francesca Ronchin ha pubblicato per i tipi di Compagnia Editoriale Aliberti

È accaduto di recente, nell’economia più importante del mondo, un cambiamento che avrebbe dovuto sconvolgere il dibattito sull’immigrazione. In America, il 2021 ha visto un forte calo dei flussi d’ingresso. In parte era l’eredità delle restrizioni migratorie introdotte da Donald Trump e mantenute in piedi da Joe Biden. In parte era la conseguenza degli ulteriori controlli motivati con la pandemia. C’è stata quindi una netta discontinuità nelle tendenze migratorie rispetto agli ultimi decenni.

Lo stesso 2021 è stato un anno d’oro per i lavoratori americani: hanno avuto i più forti aumenti salariali da molti decenni, e i miglioramenti sono stati più pronunciati nei lavori manuali, nelle mansioni meno qualificate, dagli operai ai fattorini, dalle commesse alle cameriere. Si è avuta la conferma di una verità che dovrebbe essere ovvia: il mercato del lavoro, poiché è appunto un mercato, risponde alle variazioni della domanda e dell’offerta. Quando la forza lavoro abbonda perché ogni anno viene accresciuta da nuovi arrivi di stranieri, i padroni hanno il coltello dalla parte del manico e pagano salari bassi. Se invece la manodopera scarseggia – un po’ per il Covid e un po’ perché gli immigrati non arrivano – il lavoratore ha più potere contrattuale e ottiene una paga migliore. Ovvero: l’immigrazione è una manna dal cielo per il padronato, un danno per le classi lavoratrici.

Ho esordito scrivendo: il cambiamento del 2021 “avrebbe dovuto” sconvolgere il dibattito sull’immigrazione. Invece questo non è avvenuto. L’anomalia salariale (positiva) è stata ampiamente raccontata dai grandi media americani. Che però si sono ben guardati dal trarne la lezione logica, che la semi-chiusura delle frontiere è una cosa buona per la massa dei lavoratori. Per forza non hanno tratto quella lezione: avrebbero dovuto rinnegare loro stessi, smontare il teorema politically correct sull’immigrazione che «fa bene alla nazione». È un caso di omessa informazione, questo silenzio totale sul nesso causale tra due fenomeni – blocco degli ingressi, aumenti salariali – che un buon giornalismo dovrebbe collegare. Ma l’omertà è più forte. Guai a fare autocritica dopo aver abbracciato una causa sbagliata. Distinguo due tipi di omertà.

I media ultraliberisti come il «Wall Street Journal» stanno esplicitamente dalla parte dei capitalisti. Non mi sorprende né mi scandalizza il fatto che quel quotidiano economico-finanziario continui a scagliarsi contro la chiusura delle frontiere, e auspichi il ritorno a un passato recente in cui gli stranieri entravano in massa riducendo il costo del lavoro per le imprese. Più equivoco e imbarazzante è il silenzio dei grandi media sedicenti progressisti, come «New York Times», «Washington Post», «cnn». In teoria si considerano paladini dei lavoratori; com’è possibile che non vedano il beneficio di un crollo dei flussi migratori sulle buste paga dei meno privilegiati? Ma l’ideologia è più forte delle realtà, ha un effetto accecante, impedisce di sottoporre a revisione critica i dogmi. Eppure ci fu un lungo periodo in cui la sinistra americana era tutt’altro che no border. Fu il periodo dell’America socialdemocratica, da Franklin Roosevelt a John Kennedy, quando i democratici vararono le riforme più avanzate: costruirono il Welfare State, garantirono i diritti dei lavoratori, usarono la potenza dello Stato per dare sicurezza ai più deboli, rafforzarono i sindacati, realizzarono grandi opere pubbliche per riassorbire la disoccupazione. In quello stesso periodo, la sinistra al governo mantenne dei pesanti controlli sull’immigrazione, proprio per impedire che indebolisse la classe operaia.

Quando la politica migratoria cambiò segno, con l’apertura delle frontiere cominciò lo smantellamento del welfare, l’impoverimento dei salari, il liberismo selvaggio che aumentò la quota dei profitti sul reddito nazionale. Questa verità di sinistra ha avuto autorevoli teorici nel campo progressista, come l’economista Robert Skidelsky, il più fedele erede di John Maynard Keynes.

Ma la saggezza del popolo l’aveva capita da tempo. La comunità afroamericana, la più direttamente danneggiata dalla concorrenza degli stranieri sul mercato del lavoro, non è mai stata favorevole all’immigrazione. Da anni, invece, il mantra della sinistra è un altro. Riassumo qui i luoghi comuni che vengono ripetuti senza mai metterli alla prova. «Gli immigrati aumentano la ricchezza nazionale». Per forza, visto che il pil è semplicemente la somma di tutti i redditi prodotti dalla collettività, se il numero di abitanti cresce anche il pil sale. Ma questo non ci dice nulla sulla sua distribuzione: in una nazione più ricca molti possono impoverirsi, ed è quel che accade per l’effetto redistributivo delle migrazioni. Da un lato migliorano il benessere dei migranti e dei capitalisti, dall’altro impoveriscono tanti lavoratori del Paese d’arrivo. «Vengono a fare i lavori che noi non vogliamo più fare». Più esatto: vengono a fare quei lavoratori che nessuno di noi è disposto a fare in condizioni di sfruttamento che talvolta somigliano a schiavismo; senza immigrazione i padroni-schiavisti dovrebbero attrarre manodopera nazionale cambiando il loro modello capitalistico. «Ci impediranno lo spopolamento». Fino a quando mantengono un’alta natalità, cioè per poco: le abitudini riproduttive degli immigrati si adeguano rapidamente alle nostre. «Ci pagheranno le pensioni». Fino a quando non vorranno riscuoterle loro; e sempre ammesso che stiano versando contributi. È il cane che si morde la coda: non basta avere degli immigrati oggi (regolari e non evasori) per ripianare i deficit dell’inps, bisogna averne domani, dopodomani, e a ritmi crescenti, cioè alterando radicalmente gli equilibri etnici e sociali del Paese. È quel che vogliamo? I cittadini sono stati consultati per sapere se accettano questa ingegneria sociale studiata a tavolino dai tecnocrati? Ci sono altre argomentazioni, di tipo umanitario: «Sono disperati, abbiamo un dovere di solidarietà». E in nome della solidarietà gli ospedali di Londra monopolizzano i laureati in medicina del Burkina Faso. È così che li stiamo aiutando, portando via le loro élite, i talenti, le professioni qualificate? La vera sinistra italiana negli anni Cinquanta considerò l’emigrazione dal Mezzogiorno una tragedia; perché adesso è diventata la panacea per risolvere i problemi dell’Africa? Da ultimo, esaurito ogni altro argomento, c’è il luogo comune del fatalismo: «Non c’è modo di fermarli». E qui ritorno all’esempio dell’America 2021. C’è modo eccome, i flussi si possono governare, la prova è nei fatti.

Questo è un dibattito che i progressisti (italiani o americani) non riescono a riaprire in modo equilibrato. Preferiscono restare aggrappati alle loro certezze di fede. Perciò fa bene Francesca Ronchin a tentare un’altra picconata contro i luoghi comuni. L ’esperienza di Francesca come reporter in prima linea, sul fronte rovente e tragico degli attraversamenti del Mediterraneo. L’odissea dei disperati che affidano il proprio futuro a quelle traversate ha già fatto troppi morti, ha seminato troppo dolore. È una delle ragioni per cui tante italiane e tanti italiani sono sinceramente, giustamente solidali con chi è spinto dalla miseria a rischiare la vita su un barcone. Francesca però ha visto anche un’altra realtà: le collusioni tra il mondo delle ong umanitarie e quello degli scafisti, le complicità tra l’ideologia no border e la criminalità che gestisce il traffico degli esseri umani disperati. Su questo tema IpocriSea è un documento di denuncia: grave, originale, coraggioso. Nessuno ha il diritto di ignorare queste pagine per partito preso, perché smentiscono una leggenda nobile. Per contestare queste osservazioni di una reporter in prima linea, che racconta quel che ha visto con i propri occhi, bisogna contrapporre dei fatti, non delle opinioni.

1 dicembre 2022 (modifica il 1 dicembre 2022 | 16:53)

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, 2022-12-01 15:58:00, Questa è la prefazione che Federico Rampini ha scritto per «Ipocrisea», il libro che la giornalista Francesca Ronchin ha pubblicato per i tipi di Compagnia Editoriale Aliberti, Federico Rampini

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