Inflazione e tassi in rialzo, il Paese è pronto a questa nuova stagione?

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il nuovo scenario

di Ferruccio de Bortoli15 feb 2022

Cambio di stagione. «Ma ne siamo consapevoli?» Domanda rivolta a noi stessi, non solo a chi ha responsabilità di governo. L’inflazione non è più ritenuta un fenomeno passeggero che verrà gradualmente riassorbito. Peccato vi siano state tante e autorevoli previsioni che sostenevano il contrario. L’aumento dei tassi d’interesse è costante. Anche se la Banca centrale europea rimane prudente e timorosa di fare una mossa che possa incidere negativamente sulla crescita. C’è un ricordo che brucia ancora. Nel luglio del 2008 l’allora presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, alzò il costo del denaro al 4,25 per cento per contrastare un’inflazione media nell’Eurozona intorno al 4, un po’ come adesso. Ma lo scandalo dei mutui subprime stava già esplodendo in America. E solo due mesi dopo sarebbe fallita la Lehman Brothers.

«Tasso zero»

La crisi finanziaria – con il raggiungimento del punto massimo della globalizzazione e dell’integrazione economica – costrinse poi tutte le banche centrali ad allentare non poco la politica monetaria. Oggi l’Unione europea, a differenza di quello che accade negli Stati Uniti, è lontana da una piena occupazione e il rischio di una spirale prezzi-salari, anche se non inesistente, è comunque remoto. Poi, per avvalorare il cambio di stagione, ci sarebbero anche le regole fiscali europee, che quest’anno saranno ridiscusse, la progressiva riduzione degli acquisti della Bce, la fine dell’eccezione sugli aiuti di Stato.
Secondo Guido Tabellini, ospite nei giorni scorsi di un lunch talk di Ispi e Trilateral, non è detto che si torni, come nel secolo scorso, a tassi d’interesse reali positivi. Secondo le banche centrali il tasso reale «neutrale» è intorno allo zero. Se l’inflazione dovesse scendere da sola — è il ragionamento del professore di Politica economica ed ex rettore della Bocconi — cioè fermarsi intorno al 2,3 per cento negli Stati Uniti (oggi siamo al 7,5) e di conseguenza anche in Europa, gli impatti sulla crescita potrebbero essere limitati.

I mercati finanziari scontano, per ora, questo scenario. Non è implausibile (ed è augurabile) soprattutto se i prezzi dell’energia rientreranno a livelli più accettabili. L’Arera, l’Autorità di controllo del mercato dell’energia in Italia, non fa ovviamente previsioni, ma è probabile che a fine marzo, quando verranno aggiornate le tariffe, comparirà un salutare segno meno. Il prezzo unico nazionale (Pun), cioè l’indicatore di riferimento dell’energia elettrica che, tra gennaio e dicembre dello scorso anno era passato da una media di 60 a 281 euro a megawattora (MWh), a febbraio è sceso a 217. Ancora tantissimo ma in discesa. Il prezzo medio del gas era a ottobre del 2021 a 88 euro a MWh per salire a dicembre a quota 113 e scendere in febbraio a 82.
Se non ci saranno tensioni ulteriori con la Russia, nuove speculazioni finanziarie sui mercati (il vero acceleratore e in questo caso Mosca centra poco) l’apertura del gasdotto NordStream2 e altri tipi di forniture, la situazione dovrebbe migliorare. E di molto. Se, al contrario, l’inflazione dovesse invece mantenere un andamento più sostenuto, con aumenti mensili, nella seconda metà dell’anno, superiori allo 0,2-0,3 per cento, allora la politica monetaria europea dovrebbe diventare più restrittiva con un rilevante rischio di recessione.

Scenario quest’ultimo al quale il momento i mercati non credono, ma che secondo Tabellini non è affatto improbabile. Le ultime previsioni dell’Unione europea vedono per l’Italia una crescita più contenuta al 4,1 per cento nel 2022. Ancora superiore alla media europea (4 per cento). I prezzi dovrebbero crescere del 3,5 per poi rallentare l’anno successivo (1,7). L’inflazione italiana è stimata quest’anno al 3,8 per cento e all’1,6 per cento nel 2023. Nell’analisi di Tabellini ci troviamo di fronte a un’inflazione da offerta, dovuta in gran parte alle interruzioni nella global supply chain ma anche a una politica fortemente espansiva per rispondere alla crisi pandemica. In Europa i pericoli di surriscaldamento sono inferiori a quelli degli Stati Uniti. Ma nei servizi, e soprattutto in Italia dove la concorrenza è modesta, vi potrebbero essere rialzi dei prezzi duraturi e indotti da un aumento dei salari che rimangono nel nostro Paese spesso scandalosamente bassi. L’inflazione non è solo un fenomeno economico, una variabile statistica. È anche uno stato d’animo. L’economia e la finanza vivono di aspettative e le aspettative dipendono da memoria, cultura e prassi quotidiana.

Le abitudini

Oggi noi siamo disabituati — non sappiamo per quanto ancora — a pensare in termini di inflazione. E lo sono a maggior ragione coloro che sono nativi digitali per i quali i costi di intermediazione appaiono nella normalità azzerati e la Rete sembra sempre in grado di assicurare sconti e promozioni. Siamo da anni cittadini di un mondo low cost. Una filosofia di vita. Se esiste sempre, almeno così appare, un’alternativa a buon mercato — e la rivoluzione digitale la lascia intendere — l’inflazione è un concetto difficile da afferrare e da comprendere. È qualcosa di novecentesco, di fisico, di analogico. E sono totalmente disabituati all’inflazione anche quegli imprenditori che si sono convinti per anni — nella globalizzazione che ha schiacciato e svilito i prezzi — ad avere sempre offerte al ribasso sulle forniture, al costo delle quali spesso è stata sacrificata qualità e fatica nella ricerca di innovazione.

Il nodo del lavoro

E anche i salari, almeno in Italia, si sono parallelamente impoveriti. Se non si dà valore al lavoro e non si accetta di retribuirlo come merita, si finisce per illudersi che vi sia sempre qualcuno, magari immigrato, che lo possa fare con un salario più basso. Consumatori e operatori economici si sono semplicemente dimenticati di come operi subdolamente l’inflazione. Chi ha meno di trent’anni di fatto non ha mai conosciuto gli effetti perversi, regressivi e ingiusti dell’inflazione. Non ne ha timore storico. Ed è difficile, se ci spostiamo sui mercati finanziari, cambiare atteggiamento dopo anni di tassi reali negativi. Un investitore ha considerato spesso la liquidità alla pari di un asset class, cioè una modalità di investimento. Nel secolo scorso, i tassi reali sui titoli di Stato erano positivi, cioè battevano l’inflazione e non si poteva fare altrimenti perché il risparmiatore — all’epoca erano quasi tutti collocati all’interno — non li avrebbe sottoscritti. Aveva una cultura dell’inflazione.

Oggi invece succede questo — ed è la dimostrazione di come si sia persa la memoria dell’inflazione — i titoli di Stato offerti alla clientela retail, addirittura nel caso di Btp Futura, con una motivazione patriottica legata all’emergenza sanitaria, sono quotati al di sotto della pari e comunque incorporano una perdita che però non allarma. Il Tesoro ha poche emissioni legate all’inflazione. E non ha interesse a farlo perché ci guadagna. Ma nello stesso tempo tradisce le aspettative dei cittadini. Chi scopre di essere stato penalizzato dall’inflazione accumula rancore. Perde il suo portafoglio, perde la sua cittadinanza. Sarà diffidente in futuro. Un’inflazione improvvisa, come quella che stiamo vivendo, aiuta il bilancio pubblico perché consente di alzare il prodotto lordo nominale e ridurre il peso relativo del nostro debito. Per quanto riguarda il costo, tenendo conto che la durata media del debito è stata allungata a 7,2 anni, l’effetto negativo sarà inizialmente molto limitato. Ma intanto i tassi crescono. Solo dall’inizio dell’anno, il rendimento del Btp decennale è cresciuto del 40 per cento. La prospettiva, in queste settimane, si è completamente rovesciata ma noi fatichiamo a rendercene conto o forse non vogliamo pensarci. Ed è questo il vero problema.

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L’aumento dei…, il nuovo scenario di Ferruccio de Bortoli15 feb 2022 Cambio di stagione. «Ma ne siamo consapevoli?» Domanda rivolta a noi stessi, non solo a chi ha responsabilità di governo. L’inflazione non è più ritenuta un fenomeno passeggero che verrà gradualmente riassorbito. Peccato vi siano state tante e autorevoli previsioni che sostenevano il contrario. L’aumento dei tassi d’interesse è costante. Anche se la Banca centrale europea rimane prudente e timorosa di fare una mossa che possa incidere negativamente sulla crescita. C’è un ricordo che brucia ancora. Nel luglio del 2008 l’allora presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, alzò il costo del denaro al 4,25 per cento per contrastare un’inflazione media nell’Eurozona intorno al 4, un po’ come adesso. Ma lo scandalo dei mutui subprime stava già esplodendo in America. E solo due mesi dopo sarebbe fallita la Lehman Brothers. «Tasso zero»La crisi finanziaria – con il raggiungimento del punto massimo della globalizzazione e dell’integrazione economica – costrinse poi tutte le banche centrali ad allentare non poco la politica monetaria. Oggi l’Unione europea, a differenza di quello che accade negli Stati Uniti, è lontana da una piena occupazione e il rischio di una spirale prezzi-salari, anche se non inesistente, è comunque remoto. Poi, per avvalorare il cambio di stagione, ci sarebbero anche le regole fiscali europee, che quest’anno saranno ridiscusse, la progressiva riduzione degli acquisti della Bce, la fine dell’eccezione sugli aiuti di Stato. Secondo Guido Tabellini, ospite nei giorni scorsi di un lunch talk di Ispi e Trilateral, non è detto che si torni, come nel secolo scorso, a tassi d’interesse reali positivi. Secondo le banche centrali il tasso reale «neutrale» è intorno allo zero. Se l’inflazione dovesse scendere da sola — è il ragionamento del professore di Politica economica ed ex rettore della Bocconi — cioè fermarsi intorno al 2,3 per cento negli Stati Uniti (oggi siamo al 7,5) e di conseguenza anche in Europa, gli impatti sulla crescita potrebbero essere limitati. I mercati finanziari scontano, per ora, questo scenario. Non è implausibile (ed è augurabile) soprattutto se i prezzi dell’energia rientreranno a livelli più accettabili. L’Arera, l’Autorità di controllo del mercato dell’energia in Italia, non fa ovviamente previsioni, ma è probabile che a fine marzo, quando verranno aggiornate le tariffe, comparirà un salutare segno meno. Il prezzo unico nazionale (Pun), cioè l’indicatore di riferimento dell’energia elettrica che, tra gennaio e dicembre dello scorso anno era passato da una media di 60 a 281 euro a megawattora (MWh), a febbraio è sceso a 217. Ancora tantissimo ma in discesa. Il prezzo medio del gas era a ottobre del 2021 a 88 euro a MWh per salire a dicembre a quota 113 e scendere in febbraio a 82. Se non ci saranno tensioni ulteriori con la Russia, nuove speculazioni finanziarie sui mercati (il vero acceleratore e in questo caso Mosca centra poco) l’apertura del gasdotto NordStream2 e altri tipi di forniture, la situazione dovrebbe migliorare. E di molto. Se, al contrario, l’inflazione dovesse invece mantenere un andamento più sostenuto, con aumenti mensili, nella seconda metà dell’anno, superiori allo 0,2-0,3 per cento, allora la politica monetaria europea dovrebbe diventare più restrittiva con un rilevante rischio di recessione. Scenario quest’ultimo al quale il momento i mercati non credono, ma che secondo Tabellini non è affatto improbabile. Le ultime previsioni dell’Unione europea vedono per l’Italia una crescita più contenuta al 4,1 per cento nel 2022. Ancora superiore alla media europea (4 per cento). I prezzi dovrebbero crescere del 3,5 per poi rallentare l’anno successivo (1,7). L’inflazione italiana è stimata quest’anno al 3,8 per cento e all’1,6 per cento nel 2023. Nell’analisi di Tabellini ci troviamo di fronte a un’inflazione da offerta, dovuta in gran parte alle interruzioni nella global supply chain ma anche a una politica fortemente espansiva per rispondere alla crisi pandemica. In Europa i pericoli di surriscaldamento sono inferiori a quelli degli Stati Uniti. Ma nei servizi, e soprattutto in Italia dove la concorrenza è modesta, vi potrebbero essere rialzi dei prezzi duraturi e indotti da un aumento dei salari che rimangono nel nostro Paese spesso scandalosamente bassi. L’inflazione non è solo un fenomeno economico, una variabile statistica. È anche uno stato d’animo. L’economia e la finanza vivono di aspettative e le aspettative dipendono da memoria, cultura e prassi quotidiana. Le abitudini Oggi noi siamo disabituati — non sappiamo per quanto ancora — a pensare in termini di inflazione. E lo sono a maggior ragione coloro che sono nativi digitali per i quali i costi di intermediazione appaiono nella normalità azzerati e la Rete sembra sempre in grado di assicurare sconti e promozioni. Siamo da anni cittadini di un mondo low cost. Una filosofia di vita. Se esiste sempre, almeno così appare, un’alternativa a buon mercato — e la rivoluzione digitale la lascia intendere — l’inflazione è un concetto difficile da afferrare e da comprendere. È qualcosa di novecentesco, di fisico, di analogico. E sono totalmente disabituati all’inflazione anche quegli imprenditori che si sono convinti per anni — nella globalizzazione che ha schiacciato e svilito i prezzi — ad avere sempre offerte al ribasso sulle forniture, al costo delle quali spesso è stata sacrificata qualità e fatica nella ricerca di innovazione. Il nodo del lavoroE anche i salari, almeno in Italia, si sono parallelamente impoveriti. Se non si dà valore al lavoro e non si accetta di retribuirlo come merita, si finisce per illudersi che vi sia sempre qualcuno, magari immigrato, che lo possa fare con un salario più basso. Consumatori e operatori economici si sono semplicemente dimenticati di come operi subdolamente l’inflazione. Chi ha meno di trent’anni di fatto non ha mai conosciuto gli effetti perversi, regressivi e ingiusti dell’inflazione. Non ne ha timore storico. Ed è difficile, se ci spostiamo sui mercati finanziari, cambiare atteggiamento dopo anni di tassi reali negativi. Un investitore ha considerato spesso la liquidità alla pari di un asset class, cioè una modalità di investimento. Nel secolo scorso, i tassi reali sui titoli di Stato erano positivi, cioè battevano l’inflazione e non si poteva fare altrimenti perché il risparmiatore — all’epoca erano quasi tutti collocati all’interno — non li avrebbe sottoscritti. Aveva una cultura dell’inflazione. Oggi invece succede questo — ed è la dimostrazione di come si sia persa la memoria dell’inflazione — i titoli di Stato offerti alla clientela retail, addirittura nel caso di Btp Futura, con una motivazione patriottica legata all’emergenza sanitaria, sono quotati al di sotto della pari e comunque incorporano una perdita che però non allarma. Il Tesoro ha poche emissioni legate all’inflazione. E non ha interesse a farlo perché ci guadagna. Ma nello stesso tempo tradisce le aspettative dei cittadini. Chi scopre di essere stato penalizzato dall’inflazione accumula rancore. Perde il suo portafoglio, perde la sua cittadinanza. Sarà diffidente in futuro. Un’inflazione improvvisa, come quella che stiamo vivendo, aiuta il bilancio pubblico perché consente di alzare il prodotto lordo nominale e ridurre il peso relativo del nostro debito. Per quanto riguarda il costo, tenendo conto che la durata media del debito è stata allungata a 7,2 anni, l’effetto negativo sarà inizialmente molto limitato. Ma intanto i tassi crescono. Solo dall’inizio dell’anno, il rendimento del Btp decennale è cresciuto del 40 per cento. La prospettiva, in queste settimane, si è completamente rovesciata ma noi fatichiamo a rendercene conto o forse non vogliamo pensarci. Ed è questo il vero problema.© RIPRODUZIONE RISERVATA, Photo Credit: , , www.corriere.it, %%item_url %%, Economia, Economia, Economia, Read More, , https://images2.corriereobjects.it/methode_image/socialshare/2022/02/15/6bc91374-8e2b-11ec-a91e-e98defcaa657.jpg, Corriere.it – Economia, Corriere della sera online , https://www.corriere.it/rss/images/logo_small.gif, http://xml2.corriereobjects.it/rss/economia.xml, Ferruccio de Bortoli

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