«Invasione dell’Ucraina: se ne parli a scuola, luogo protetto dove i giovani possono formarsi un’opinione»

«Invasione dell’Ucraina: se ne parli a scuola, luogo protetto dove i giovani possono formarsi un’opinione»

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di Luciano Benadusi*

Il sociologo Benadusi: spesso la scuola rinuncia ad affrontare temi divisivi. Ma il suo ruolo è quello di insegnare agli studenti a difendersi dalle fake news e di riequilibrare il dibattito pubblico»

*sociologo, professore emerito alla Sapienza

La guerra esplosa in Europa con l’invasione russa dell’Ucraina ha profondamente scosso l’opinione pubblica, creato un clima di paura e suscitato – non poteva essere altrimenti – un acceso dibattito in tutti i paesi europei. Si tratta di un evento di grande risonanza emotiva destinato ad avere un impatto rilevante e forse duraturo sugli orientamenti politici dei partiti e dei cittadini. Caratteristica che potrebbe renderlo un’occasione importante di educazione alla cittadinanza per gli adulti e a maggior ragione per i giovani, molti dei quali in Italia lontani dalla politica. Non è un caso che le parti in conflitto, Russia e Ucraina, abbiano ingaggiato una guerra parallela, di intensità senza precedenti, sul piano dell’informazione. Fare informazione su eventi di questa portata permette infatti di formare le menti e stimolare le emozioni delle persone, quindi di educare o diseducare alla cittadinanza. Quali sono le poste in gioco di questa guerra? Alcuni pensano gli interessi di due potenze imperialiste, Stati Uniti e Russia. In realtà per noi europei quella più importante, insieme alla pace nella giustizia, è la difesa nel nostro continente della democrazia liberale minacciata dalle mire espansioniste di un’autocrazia. Abbiamo infatti visto nell’invasione dell’Ucraina un tentativo – ne potrebbero seguire altri – di esportazione bellica di quel regime. Insomma, un attacco ai valori fondamentali dell’Unione Europea e della Costituzione italiana: la democrazia, la libertà, i diritti umani, la rule of law. Che andrebbero difesi anche attraverso l’educazione alla cittadinanza, facendo apprendere delle conoscenze certamente, ma non solo.

Cosa insegna la guerra

Altrettanto se non più essenziale è l’apprendere a praticare la democrazia in vari ambiti della vita sociale, a partire da quelli che il filosofo Habermas ha chiamato «discorso pubblico», intendendo la discussione dei cittadini sulle questioni di pubblico interesse. Un ambito fondamentale in cui oggi si forma il discorso pubblico è il sistema dei media, ragione per cui dobbiamo chiedergli di svolgere anche una funzione culturale ed educativa offrendosi ai cittadini come ambito appunto di pratiche democratiche. La guerra in corso fornisce un’occasione importante per rafforzare l’adesione ai valori della democrazia liberale. Basta suggerire delle comparazioni. Ad esempio dare risalto al fatto che un’autocrazia quale la Russia, nell’assenza delle forme di controllo e bilanciamento dei poteri proprie delle democrazie, può permettersi di scatenare una guerra di invasione per obiettivi di espansione neo-imperialista e fare strame della legalità internazionale. Per le stesse ragioni – come documentato dalle immagini e testimonianze copiosamente fornite dalle televisioni – può consentire al suo esercito di avere nei confronti dei civili comportamenti particolarmente spietati, spesso sconfinanti nei crimini di guerra. Infine, l’assenza delle libertà di parola e di stampa conferisce a Putin la potestà di tenere la propria popolazione dietro lo schermo di un’accecante propaganda tanto da cancellare tutto ciò che può contraddire la versione ufficiale dei fatti. Arrivando persino a punire con il carcere chi osa chiamare la guerra con il suo nome e, massima efferatezza, lasciare le famiglie dei propri soldati caduti in battaglia all’oscuro della loro sorte, vietando la restituzione delle salme.

Libertà o masochismo?

Mentre alcuni quotidiani e programmi televisivi a grande diffusione hanno offerto una informazione di questo tipo, sui social e su altri programmi in TV è stato fatto esattamente l’opposto. Hanno concesso spazio più che negli altri paesi europei ad una narrazione contro-fattuale che invece di mettere in risalto le differenze a favore della democrazia ha veicolato un messaggio auto-critico talmente radicale da parificare le colpe dell’Ucraina alle colpe della Russia, gli errori delle democrazie agli errori delle autocrazie. Qualcuno lo ha definito masochismo. Non necessariamente si tratta di questo: la libera espressione della critica rappresenta – come si è detto – uno dei vanti delle democrazie. E’ però masochismo quando i conduttori dei dibattiti sui media omettono di rimarcarlo e consentono che affermazioni così discutibili non vengono affatto (o quasi) sottoposte a contraddittorio. Insomma, si è persa così l’occasione di rinsaldare nei cittadini la fiducia nella democrazia. Reputo tuttavia preoccupanti dal punto di vista della democrazia, per adoperare i termini di un grande mass-mediologo Mc Luhan, forse più ancora i «mezzi» della comunicazione che quei mistificanti «messaggi».

Un mondo «intossicato»

Un anno prima dello scoppio della guerra guardando non solo all’Italia due sociologi, Bentivegna e Boccia Altieri, in un libro dal titolo «Le voci della democrazia» dedicato all’ecosistema dei media, hanno illustrato con dovizia di prove empiriche come nella presente fase, definita di «disintermediazione», essi fungano non tanto da causa quanto da specchio e da acceleratore di un processo di «intossicazione» della comunicazione politica rischioso per la democrazia. Processo caratterizzato da tre interrelate degenerazioni: l’inciviltà, la disinformazione, la polarizzazione. Non parlo dei social dove tutte sono presenti e spesso in forme esasperate. Parlo della Tv, il media con maggiore copertura di pubblico. Nel caso della guerra molti suoi talk show hanno fomentato la polarizzazione e la disinformazione dando risonanza alle opinioni più estremiste a prescindere dalla fondatezza logica, storica e geo-politica. Opinioni sparate a colpi di slogan, a dispetto della complessità delle questioni. Un caso clamoroso di disinformazione consentito dall’assenza del contraddittorio è stato l’intervista del ministro degli esteri russo, autore di una sfrontata fake news sulle origini ebraiche di Hitler, non corretta in simultanea con un fact-cheking del conduttore, come sarebbe stato doveroso, ma dopo qualche giorno da parte dello stesso Putin solo per il timore di una crisi diplomatica con Israele. In alcune trasmissioni è comparsa finanche un po’ di inciviltà essendosi sopportato che i dissensi trascendessero in offesa, dileggio o caciara. Vale la pena di sottolineare che all’origine delle degenerazioni risiede la tendenza delle televisioni, non solo private, a privilegiare la finalità della spettacolarizzazione per aumentare lo share, a discapito dell’impegno anche culturale ed educativo.

Il ruolo della scuola

Purtroppo, per gli adulti, la grande maggioranza della popolazione italiana, alle derive nel sistema dei media nessun rimedio sul piano educativo sembra attualmente possibile. Per i giovani un rimedio (parziale) invece esiste: chiamare la scuola ad una missione di riequilibrio: distinguersi per forme non incivili, non manipolatorie e non partigiane di trattazione delle questioni valoriali e politiche. Sappiamo che finora poco essa è riuscita a fare alfabetizzazione politica democratica per la persistenza di due annosi tabù: scansare i temi divisivi per non turbare il clima delle classi, relegare la politica fuori dei cancelli delle scuole per non intaccare il principio di neutralità. Donde la naturale diffidenza per tutto quanto riguarda l’attualità. Non possiamo sapere se sotto lo shock della guerra in Ucraina la situazione sia in parte cambiata. Il ministro Bianchi ha esortato le scuole a parlare con gli studenti di questo tema, ed è un buon segno, invitandole a focalizzare l’attenzione sull’articolo 11 della Costituzione. Un aggancio opportuno a condizione che non venga utilizzato per imboccare una via tanto facile quanto poco efficace: la riproposizione di una generica ed ambigua retorica pacifista, quale abbiamo vista di scena in talune manifestazione di piazza. Opportuno ma anche problematico perché l’articolo 11 e gli altri articoli della Carta rilevanti per una sua corretta lettura rappresentano un tema divisivo. Tanto è vero che nel dibattito pubblico sulla guerra sono stati oggetto di contrapposte interpretazioni. Donde l’interrogativo: che fare per sgombrare il campo dei timori che hanno finora bloccato l’ingresso nella scuola italiana delle questioni controverse?

Un ambiente protetto

Può aiutare a rispondere sapere che a livello internazionale va sviluppandosi un filone di pedagogia delle controversie che studia come possono essere gestite nella scuola in modo appropriato, evitando lacerazioni e indottrinamenti di parte. Alacremente impegnato su questo fronte è il Consiglio d’Europa da cui provengono interessanti riflessioni e proposte. Una sua pubblicazione, intitolata «Teaching on Controversial Issues» (2020), raccomanda agli insegnanti di creare ambienti protetti che aiutino gli studenti a «deal with differences, defuse tension and encourage non-violent means of conflict resolution», nonché a «build mutual tolerance and respect, and foster a more critical approach to information received from the media». Al filone della pedagogia delle controversie appartiene la metodologia del debate, di origine anglosassone ma oramai non priva di applicazioni anche in Italia, ad esempio quelle promosse a livello nazionale dall’Indire. Mirata alla costruzione di abilità dialogiche e argomentative, tale metodologia regola le discussioni facendo ruotare gli studenti fra loro nel sostenere i diversi punti di vista, abituandoli così a esporre efficacemente le proprie ragioni e nello stesso tempo a comprendere e rispettare quelle degli altri.

Il ruolo delle fonti

Ben si presta dunque a discutere dei problemi etici e giuridici sollevati da una guerra. Meglio però quando le argomentazioni, oltre ad essere formalmente corrette, si fondano su informazioni e conoscenze attinte da fonti qualificate. A tale scopo entrano in gioco le metodologie volte all’analisi critica delle informazioni erogate dai media, anzitutto quelli digitali. Da segnalare ad esempio la creazione di laboratori didattici che impegnano gli studenti in un’attività di smascheramento delle falsificazioni, comprese quelle riguardanti un conflitto armato. Uno di questi laboratori, «Il cercatore di fake news», è stato promosso dal Miur. Lo sviluppo della pedagogia delle controversie, grazie anche a programmi di ricerca-azione e di formazione degli insegnanti, dovrebbe diventare una direttiva nazionale della policy di educazione alla cittadinanza. L’informazione e la discussione ben regolate sono il nutrimento della democrazia, sarà bene che lo siano pure dell’educazione democratica nelle scuole italiane.

29 maggio 2022 (modifica il 29 maggio 2022 | 19:46)

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