L’ospedale sul treno: «Così aiuto l’Ucraina,  soccorse 1.400 persone»

L’ospedale sul treno: «Così aiuto l’Ucraina, soccorse 1.400 persone»

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di Chiara Martinotta*

Il racconto in prima persona dal convoglio attrezzato di Medici Senza Frontiere che da marzo a oggi è andato in aiuto di bambini, donne e uomini colpiti dalla guerra. «Ogni vita persa è una sconfitta»

a Rompere il silenzio delle cinque di pomeriggio nella stazione di Leopoli sono due signore sull’ottantina. Due sorelle, separate da anni per questioni familiari, si sono ritrovate nel mezzo di una guerra. Una delle due si chiama Anastasiya, la guardo mentre viene portata fuori dal treno dai nostri infermieri, una signora vispa, piena di energia. È strano vedere come cambiano i meccanismi di reazione di fronte alle tragedie. Anastasiya l’ho conosciuta in uno dei viaggi sul treno di Msf, aveva un braccio rotto per l’onda d’urto di una bomba caduta su casa sua. Viveva da sola in un paesino nella parte est dell’Ucraina, portava al pascolo le sue capre quando la sua casa è stata distrutta. Prima di scendere dal treno ci ha detto «grazie per i calzini e la coperta, per avermi ridato dignità e un posto sicuro in cui stare, in un paese instabile».

Responsabile

Da inizio agosto lavoro sul treno medicalizzato di Medici senza frontiere in Ucraina come responsabile delle attività mediche. Trasportiamo i pazienti dalle zone della linea del fronte verso l’ovest, dove potranno essere curati in un luogo sicuro. Dal 31 marzo a oggi oltre 1.400 persone: feriti di guerra, malati cronici e orfani, malati psichiatrici e anziani, anche persone non gravi ma che della guerra risentono in altro modo. Sono rimasti soli. Viktor, 60 anni, ogni volta che mi vede mi chiama «italiana, italiana!»: ha entrambe le gambe fratturate, una volta guarito vorrebbe ricongiungersi con la figlia in Italia. Saluto anche lui a Leopoli, punto di arrivo e partenza del treno. Risalgo per un altro viaggio, altre venti ore.

Lavorare su un treno adibito a clinica mobile è come trovarsi in una realtà sospesa. Guardare fuori dal finestrino mi restituisce una sensazione di immensità, paesaggi incredibili, si passa dalle montagne alle distese di girasoli. Mi ricordo che nel primo viaggio, appena arrivata in Ucraina, ero con Kateryna, medico sul treno Msf, e ci siamo emozionate alla vista dei Carpazi. Montagne che a me ricordano casa. E anche a lei. Molti dei nostri pazienti non guardano fuori dal finestrino, tanto bello è il paesaggio quanto forte è il dolore a doverlo lasciare. In altri Paesi dove ho lavorato con Msf non capita di curare anziani perché l’età media è più bassa e qui mi colpisce molto vedere questi pazienti, così vulnerabili, soli in mezzo a un conflitto, con patologie croniche e senza accesso ai farmaci. Il nostro treno è una salvezza per loro. Trovarsi nel momento sbagliato al posto sbagliato è facile in una guerra, soprattutto se hai 12 anni e vivi nelle zone vicine al fronte.

Iryna era nel nostro vagone di terapia intensiva. A causa di un bombardamento aveva riportato delle ferite addominali molto gravi, ad assisterla c’era solo la mamma, il papà era deceduto nel tentativo di salvarla. Quattro giorni dopo averla trasferita in un ospedale di Leopoli, affinché potesse ricevere cure specializzate, è squillato il telefono: Iryna non ce l’aveva fatta. Che tu sia in Iraq, Sud Sudan o in Ucraina, questi episodi li vivi sempre come una sconfitta, perché hai perso una vita. L’impatto emotivo per tutti noi è stato molto forte, in particolare sui colleghi ucraini: poteva essere una sorella o una figlia.

Sorprese

Durante questi viaggi abbiamo creato una sorta di vita collettiva comune. Questo ci permette di continuare a lavorare per aiutare la gente a raggiungere posti sicuri. I rapporti lavorativi e personali si intrecciano e si fortificano in fretta e in un paio di viaggi si diventa amici. Sabato 17 settembre per esempio è stato il mio compleanno e i colleghi mi hanno riempito di sorprese: i funghi raccolti dal papà della collega dei Carpazi, una collana tipica ucraina e dei fiori. È stato un sentirsi a casa anche lontano da casa. Lo chiamiamo treno medicalizzato, ma va al di là della cura medica. Cura le ferite e protegge le persone. Spesso arrivati a destinazione i pazienti non vogliono scendere. Perché lì sopra, tutti i giorni, ci prendiamo cura di loro e cerchiamo di restituire loro la dignità persa.

*Medici Senza Frontiere

10 ottobre 2022 (modifica il 11 ottobre 2022 | 13:16)

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, 2022-10-12 05:10:00, Il racconto in prima persona dal convoglio attrezzato di Medici Senza Frontiere che da marzo a oggi è andato in aiuto di bambini, donne e uomini colpiti dalla guerra. «Ogni vita persa è una sconfitta», Chiara Martinotta*

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