Istituiamo cattedre miste: metà ore di sostegno e metà curriculari. Inclusione in Italia? facciamo bene. INTERVISTA a Dario Ianes

Istituiamo cattedre miste: metà ore di sostegno e metà curriculari. Inclusione in Italia? facciamo bene. INTERVISTA a Dario Ianes

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A che punto siamo con l’inclusione scolastica in Italia. Ne abbiamo parlato con il Professor Dario Ianes, già docente ordinario di Pedagogia e didattica dell’inclusione all’Università di Bolzano, Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento per il quale cura alcune collane, autore di vari articoli e libri e direttore della rivista «DIDA».

Professor Ianes, recentemente è stato pubblicato il volume “Cosa sappiamo dell’inclusione scolastica in Italia? I contributi della ricerca empirica” edito dalla Erickson. Partiamo proprio da qui, cosa sappiamo dell’inclusione scolastica?

La ringrazio del riferimento perché questo è un lavoro, che è durato alcuni anni, fatto oltre che dal sottoscritto da Rosa Bellacicco e Silvia Dell’Anna, ricercatrici la prima all’università di Torino e la seconda a quella di Bolzano. È stato fatto un lavoro capillare su tutta la letteratura e la ricerca pubblicata negli ultimi dieci anni per rispondere alla domanda su cosa sappiamo davvero sull’inclusione mediante la ricerca, al di là delle buone intenzioni, dei racconti, dell’aneddotica, che può essere positiva o negativa.

Il nostro obiettivo è stato quello di poter dire cosa sappiamo legittimamente, sulla base di dati, che funziona o non funziona. Innanzitutto c’è da dire che in Italia facciamo poca ricerca seria, abbiamo un’esperienza di integrazione delle alunne e degli alunni con disabilità dalla fine degli anni ’70 e non abbiamo dati, se non pochissimi, per andare in un contesto internazionale a rappresentare il modello italiano e fornire gli effetti che produce.

Su questo punto ritornerò tra un attimo perché il dibattito sull’inclusione tra chi è favorevole e chi no a livello europeo è molto forte. Il secondo aspetto è che i pochi dati che abbiamo ci dimostrano che in effetti i risultati sono positivi, nel senso che se facciamo integrazione ben fatta in classe, non fuori nello stanzino come siamo abituati a dire, con la partecipazione dei compagni e di tutti i docenti, otteniamo due tipi di risultati positivi: il primo riguarda il risultato positivo sugli apprendimenti e la partecipazione degli alunni con disabilità, che è l’obiettivo principale, ma poi si ottiene anche una serie di miglioramenti in termini di capacità comunicative, abilità sociali, capacità di risolvere i problemi e un clima prosociale generale in aula con tutti gli altri alunni. In più c’è un terzo effetto positivo che è che la didattica ordinaria dei curricolari diventa un po’ più inclusiva, cioè diventa un po’ più flessibile, differenziabile e differenziata, personalizzata, per cui anche questo è un dato positivo.

In riferimento a quelle voci scettiche sull’inclusione alle quali accennavo prima, che vedo con una certa preoccupazione, a livello europeo si levano sempre più voci che dicono che il diritto all’inclusione sia una bella cosa e nobile dal punto di vista civile, giuridico eccetera, però enormemente difficile da raggiungere, per una serie di motivi, e alcuni sostengono anche che sebbene si riesca a raggiungere un certo livello di integrazione di un alunno con un alto livello di gravità nella classe ordinaria, con i compagni e gli insegnanti curricolari, di fatto non si riuscirà a dare la migliore risposta possibile; nel senso che questo alunno è così grave che magari avrebbe bisogno di altro rispetto agli interventi educativi o sulle autonomie più basilari che non riesce a raggiungere nel contesto normale.

Questo è un argomento di quelli che io chiamo gli incluso-scettici, di quelli che dicono che non solo può essere difficile ma anche dannoso in alcuni casi, ebbene questi sono dati che abbiamo sconfermato anche con delle rassegne di ricerche a livello internazionale e questo libro serve anche a contrastare questo tipo di logica. Noi ce l’abbiamo l’inclusione in Italia, non è che abbiamo metà degli alunni nelle scuole speciali e l’altra metà in inclusione, li abbiamo tutti in inclusione e dunque dovremmo essere in grado di dire che sappiamo delle cose per confortare anche paesi che invece si stanno muovendo faticosamente in questo dibattito e portare un contributo positivo.

Voi promuovete una cultura basata sull’evidence-based, favorendo la disseminazione di esempi di buone prassi, e indicando alcune prospettive di attuazione. Ci spiega meglio la metodologia EBE e la sua importanza?

L’Evidence Based Education o l’Evidence Based Instruction, come vogliamo chiamarla, può avere per noi due accezioni diverse. In medicina, perché tutto nasce dalla medicina dove ad esempio un farmaco viene messo in commercio se in precedenza si sono fatti tutta una serie di trial clinici che ci dicono che effettivamente funziona, come è successo nel recente caso dei vaccini che arrivano quando c’è un’evidenza controllata con estremo rigore scientifico che dimostra che effettivamente raggiunge gli obiettivi per il quale è stato ideato e sperimentato, ecco che questa è la visione molto dura dell’evidenza. In ambito educativo questo vuol dire che innanzitutto dobbiamo chiederci se abbiamo delle ricerche che ci danno evidenza che alcuni approcci producono risultati positivi. Facciamo un esempio, tante ricerche ci dicono che una didattica cooperativa, un piccolo gruppo operativo eterogeneo, non i bravi da una parte e quelli meno dall’altra, produce risultati significativamente migliori in termini di apprendimento rispetto ad un gruppo omogeneo, questo ci dice l’evidenza con una certa continuità.

A questo punto un Dirigente Scolastico o un Docente può dire che utilizzerà questa metodologia perché ha un’evidenza positiva, mentre non ne utilizzerà un’altra che non ha un’evidenza positiva. Facciamo un altro esempio prendendo spunto dal Feedback, anche qui la ricerca ci dice che dare un feedback positivo costante, preciso, sul compito e non sulla persona, che colpisce tutti i tentativi di apprendimento che una persona fa, ecco che questa è una leva efficace per produrre apprendimenti e dà un valore di efficacia notevole. Come detto in precedenza, un Docente che dall’evidenza si rende conto che è positiva, è normale che adotterà il più possibile questa metodologia perché ha un supporto scientifico per dire che questa azione produrrà più risultati.

Questa è la visione di usare un approccio che abbiamo un fondamento rispetto a quelli che non lo hanno. Però c’è un’altra accezione basata sull’evidenza ed è quella che tu prima citavi come buone prassi. Una buona prassi non è un’evidenza sistematica dal punto di vista empirico, cioè non è che possiamo dire che abbiamo fatto un trial particolarmente controllato perché avevamo dieci classi che lavoravano in un determinato modo e dieci classi di controllo in modo da poter fare tutta una serie di analisi, non abbiamo questa evidenza, però ne abbiamo un’altra, abbiamo un’evidenza che in una determinata situazione e con determinate persone una determinata pratica ha prodotto buoni risultati.

Questo ci permette di dire che una volta che siamo stati informati di questo possiamo provare a capire se anche nella nostra realtà questa procedura può funzionare, è una forma di evidenza differente rispetto a quella di cui si parlava prima ma è pur sempre un’evidenza di cui abbiamo grande bisogno, perché quando si cerca di inventare qualcosa si prende spunto da quello che hanno fatto gli altri per farti venire delle idee e moltiplicare la tua creatività, la tua iniziativa. Questi sono i due modi di basarsi sull’evidenza, da un lato quello rigoroso che si basa su un approccio scientifico, dall’altro quello diffusivo delle pratiche che le persone fanno e che generosamente dovrebbero condividere e lanciare nell’ecosistema formativo e non tenersele strette dentro la propria scuola o addirittura dentro il proprio armadietto.

Fare inclusione diventa sempre più difficile, i bisogni educativi speciali sono in crescita e abbracciano aspetti sempre più complessi, dagli alunni con deficit fino agli alunni plusdotati. Tenuto conto di questa situazione è ancora valido il modello di inclusione italiano?

Se pensiamo al modello d’inclusione legato solamente alla disabilità, per cui abbiamo uno schema del tipo certificazione medica – ore di sostegno, con scarso coinvolgimento dei curricolari e addirittura auletta di sostegno, è chiaro che quel modello non è valido per un discorso d’inclusione più ampio. Invece un discorso di inclusione ampio vuol dire non occuparsi del 3-4% degli alunni con disabilità, ma di tutti gli alunni, di tutto quello spettro delle differenze che vanno dalle disabilità intellettiva grave o gravissima fino alla iperdotazione o plusdotazione particolarmente brillante, passando attraverso i DSA piuttosto che i BES o la migrazione, insomma passando attraverso l’infinita varietà delle differenze umane.

Allora non è più pensabile che ci si basi solo su un fondamento medico che porta alla necessità di certificazione degli alunni per assegnare poi il docente di sostegno e l’assistenza all’autonomia e alla comunicazione, o magari luoghi separati per svolgere delle attività, questo non può più funzionare per una visione più ampia dell’inclusione per cui bisogna dire che tutti devono essere corresponsabili, tutti devono essere formati, bisogna avere delle differenze tecniche differenziate, perché se ho in classe un alunno con una iperdotazione cognitiva, ho bisogno che qualcuno, a me curricolare, mi dia una mano per poter differenziare la didattica, non solo per quelli che hanno dei DSA ma anche per questo alunno che ha una sua caratteristica particolare.

Abbiamo bisogno di una competenza specifica, così come ne abbiamo bisogno se in classe abbiamo un alunno ipovedente grave e così via. Pensiamo a quello che succede adesso per i problemi comportamentali, di disagio psicologico o varie forme post-covid di problematicità emotiva o relazionale, anche in questi casi abbiamo bisogno di competenze, ma non di figure come lo psicologo che porta fuori il ragazzino per fare attività, c’è bisogno che anche il curricolare impari a gestire le cose in maniera sensibile a quel tipo di disagio o di difficoltà. Un discorso inclusivo certamente prende dentro di sé quella quota di ragazze e ragazzi con disabilità, da cui siamo partiti negli anni ’70, però via via si allarga il discorso, si complessifica, e allora tutto il sistema, tutto il contesto direbbe Andrea Canevaro, diventa competente per questo tipo di moltiplicarsi delle differenze.

Un’ultima domanda. L’inclusione ha bisogno di un lavoro sinergico di tutto il gruppo docente. Non sempre è così, in molte realtà c’è la tendenza a delegare questa funzione all’insegnante di sostegno. Quali sono i correttivi da adottare?

Quello della delega è un male cronico del nostro sistema, perché è insito stesso alla struttura del sistema. Facciamo un esempio, se sono un curricolare, poco formato, per cui insegno matematica alla scuola secondaria di secondo grado, di pedagogia e didattica non so nulla perché ho studiato cinque anni di matematica e poi sono stato catapultato nella scuola, in una scuola che non mi accompagna dal punto di vista didattico, sono da solo e cerco di arrabattarmi.

Quindi io sono poco formato, cresce il livello di stress della difficoltà dei miei alunni perché cambiano e diventano sempre più complessi, come dicevamo anche prima, ecco che se ho strutturalmente a disposizione un collega di sostegno che è lì perché ho in classe una qualunque disabilità e la sua presenza, il suo stipendio tra virgolette, è incardinato su quei soggetti e non sulla classe come invece è il mio, a quel punto strutturalmente sarà altissima la probabilità che io deleghi a lui, gli dirò tu sai qua per lui, il PEI te lo fai tu, perché l’alunno è il tuo.

Questo è un errore perché in realtà è il nostro alunno. Se si verifica una situazione come quella che ho appena descritto non è necessario ma è molto probabile che scatti un meccanismo di delega. Quindi cosa fare? Che tipi di correttivi mettere? Correttivo parziale è quello che non ci sia più un sostegno a cattedra piena ma ci sia a cattedra mista, cattedra mista che ti porti a fare metà delle ore nella materia curricolare e metà delle ore nel sostegno già va nella direzione di normalizzare un po’, non sei solo la figura di sostegno per i ragazzi con disabilità, sei un docente curricolare e fai anche ore di sostegno. Innanzitutto se riuscissimo in qualche maniera a distribuire le ore di sostegno dentro il quadro più normale, chiamiamolo così, eviteremmo un po’ il meccanismo di delega, poi c’è il discorso che i curricolari vanno formati, perché se il docente curricolare ne capisce un po’ di più riuscirà ad adattare anche lui la sua didattica e delegare meno. In prospettiva sono anni che continuo ad immaginare e sperimentare che si possa addirittura evolvere radicalmente la figura del sostegno.

Immaginiamo una scuola che abbia venti insegnanti di sostegno ed invece di avere venti insegnanti di sostegno ne predisponga diciannove curricolari che mi fanno co-presenza, co-teaching, co-docenza inclusiva, in pratica arricchiscono l’offerta formativa e un docente, il ventesimo, quello che ha maturato una grande competenza nel sostegno, che gira per le classi a dare una mano a tutti i colleghi che sono tutti co-responsabili di un discorso inclusivo. Ecco che avremmo una quota maggioritaria di docenti curricolari a tutti gli effetti, che si supportano a beneficio di tutta la classe, e avremo la residua quota di docenti molto competenti, e tra gli insegnanti di sostegno ce ne sono tantissimi, che diventano una figura itinerante, non assegnata al singolo alunno, che vanno a dare metodologia a tutti i colleghi.

Credo che questo sia il punto di arrivo di un discorso evolutivo perché accanto all’ex insegnante di sostegno, che gira in un gruppo di scuole a dare una competenza legata a metodologie inclusive, avremo anche altre figure di supporto come ad esempio il tiflologo piuttosto di quello che si occupa della sordità, oppure chi si occupa della comunicazione aumentativa alternativa, esperti di autismo dove magari si va a spiegare ai colleghi come gestire certe crisi da sovraccarico sensoriale, ecco che avremo attorno alla scuola, maggiormente potenziata dal punto di vista dei curricolari, degli ecosistemi di competenze che vanno a sostenerla. A quel punto non avremmo più la struttura che porta alla delega, perché non puoi delegare nessuno, e quindi siamo tutti coinvolti all’interno di un discorso inclusivo.

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