di Giusi Fasano
Viaggio nella città che dopo la tregua di maggio aveva tirato un po’ il fiato. I missili sono tornati, c’è chi vive nelle stazioni del metrò: «Fingiamo di essere in campeggio»
Dalla nostra inviata
KHARKIV— Non è silenzio, è di più. Le notti di Kharkiv non hanno altra voce che quella delle sirene e delle bombe. Il buio è spesso, anche nel cuore della città. È come se la vita stessa si fermasse, dopo l’ora del coprifuoco. Ma se resisti alla paura di rimanere sul balcone qualche minuto, la ricompensa è un cielo stellato che incanta, appena gli occhi si abituano all’oscurità.
Eccola, la città ingannata.
L’illusione
La tregua di maggio aveva autorizzato tutti a sperare in giorni meno brutali. L’assedio sembrava finito, i russi si erano ritirati verso il loro confine, a 40 chilometri da qui. Ma era un inganno, appunto. L’ex capitale da un milione e mezzo di abitanti, la seconda città d’Ucraina, è tornata sotto attacco giorno e notte. E l’altra mattina all’alba i missili hanno colpito di nuovo il centro.
La gente è sfinita, spaventata, per le strade poche auto, il 70 % delle attività sono ferme, il 30% delle case sono distrutte, pochissimi i negozi, i caffè e i ristoranti aperti. Ovunque le vetrine e le finestre sono oscurate da pannelli di protezione, si fatica a trovare un palazzo che abbia tutti i vetri intatti («quando non sono stati i missili sono state le bombe a grappolo», giurano testimoni dei primi giorni di guerra, i più cruenti).
Senza casa
«Abbiamo nove distretti e tutti vengono bombardati. Non c’è nessun quartiere, nessun luogo della città che si possa dire totalmente sicuro», commenta il sindaco, Ihor Terekhov. Che non vuole dire quante croci conta la sua città («molte centinaia») ma dice che più di 150 mila persone sono rimaste senza casa e che nei giorni buoni — quelli di inizio maggio — i suoi cittadini erano tornati al ritmo di 2 mila al giorno, le piccole imprese avevano provato a ricominciare, la gente era uscita dalla metropolitana diventata casa, migliaia di quegli sfollati vissuti sotto terra per due mesi e mezzo avevano trovato una sistemazione. «E invece adesso…».
La gente del sottosuolo
Ancora oggi, dopo 158 giorni, ci sono fra le 100 e le 150 persone che vivono fra treni e banchine nella «Eroi del lavoro», l’ultima stazione del metrò in direzione nord-est, proprio sotto i piedi di Saltivka, il quartiere più bombardato e abbandonato della città. Il mondo di sopra ha palazzi neri di fumo e vuoti di persone, è senz’acqua, né gas né corrente elettrica. I pochi abitanti rimasti sono come fantasmi: «Viviamo in un luogo che non esiste più, in case irriconoscibili, ogni esplosione è una nuova ferita». Il mondo di sotto ha bambini che giocano felici ai piedi di un letto a castello, fra i tornelli delle biglietterie e i cartelloni pubblicitari; ha signore che scaldano l’acqua per farsi la doccia, gatti che sonnecchiano, gente che legge sdraiata su cumuli di coperte e altra che prega il cielo di salvare l’Ucraina perché, «Signore, noi ce la meritiamo la salvezza».
Fingiamo di essere in campeggio»
Maria, 70 anni, racconta che è arrivata a bordo di un carro armato, il 27 febbraio. Anche Zinaida, 71 anni, vive là sotto dal 27 febbraio con sua figlia Zhenia, 50 anni. «Il nostro palazzo è inagibile. Non abbiamo più niente. Dove andiamo?». Essere vicini a casa dà l’illusione di poterci tornare presto. Se le chiedi come passa le giornate Zhenia risponde per sé e per le altre che si riuniscono attorno: «Inganniamo la vita facendo le cose che facciamo sempre: sveglia alla solita ora, igiene personale, andiamo fuori a far prendere aria alle coperte, ci siamo fatte perfino la piega… Fingiamo di essere in campeggio. Ma nessuno vuole rimanere qui per l’inverno».
Il dottor Bukto
Ci si abitua anche a condizioni che magari un tempo sembravano impossibili. Valery Bukto, per esempio. Ha 68 anni ed è il primario di neurochirurgia del City Hospital of Ambulance and Emergency Help. Da quando è scoppiata la guerra sarà tornato a casa tre-quattro volte, solo per controllare che fosse ancora in piedi. «Dormo qui in ospedale», dice, «perché c’è bisogno di me, non c’è giorno che non arrivino civili feriti dalle schegge». Il dottor Bukto si commuove mentre racconta di operazioni complicate, di vite salvate, del suo «team fantastico del blocco operatorio» e dei suoi tre figli che non vede da un po’.
Il guardiano del niente
A Kharkiv ci sono decine di migliaia di padri che non vedono da mesi i figli, mandati al sicuro lontano dalle bombe. Andrij Semeniuk, 54 anni, è uno di loro. Il suo ragazzo è andato in Israele e lui è rimasto a lavorare per la security del Barabashovo,uno dei più grandi mercati d’Europa che un attacco missilistico ha semidistrutto il 17 di marzo. Non si capisce che cosa debba sorvegliare, adesso, se non un immenso cumulo di ferraglia deformata dal fuoco. Ma per Andrij quella ferraglia è un bel po’ della sua vita e «non importa, io vengo qui e faccio il giro come se ci fossero ancora tutti». Come se ci fosse ancora il vociare della gente, i negozietti aperti, le merci davanti alle porte, i pacchi da caricare e scaricare…Come se fossimo ancora al 23 febbraio.
30 luglio 2022 (modifica il 30 luglio 2022 | 21:52)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
, 2022-07-30 19:53:00,
di Giusi Fasano
Viaggio nella città che dopo la tregua di maggio aveva tirato un po’ il fiato. I missili sono tornati, c’è chi vive nelle stazioni del metrò: «Fingiamo di essere in campeggio»
Dalla nostra inviata
KHARKIV— Non è silenzio, è di più. Le notti di Kharkiv non hanno altra voce che quella delle sirene e delle bombe. Il buio è spesso, anche nel cuore della città. È come se la vita stessa si fermasse, dopo l’ora del coprifuoco. Ma se resisti alla paura di rimanere sul balcone qualche minuto, la ricompensa è un cielo stellato che incanta, appena gli occhi si abituano all’oscurità.
Eccola, la città ingannata.
L’illusione
La tregua di maggio aveva autorizzato tutti a sperare in giorni meno brutali. L’assedio sembrava finito, i russi si erano ritirati verso il loro confine, a 40 chilometri da qui. Ma era un inganno, appunto. L’ex capitale da un milione e mezzo di abitanti, la seconda città d’Ucraina, è tornata sotto attacco giorno e notte. E l’altra mattina all’alba i missili hanno colpito di nuovo il centro.
La gente è sfinita, spaventata, per le strade poche auto, il 70 % delle attività sono ferme, il 30% delle case sono distrutte, pochissimi i negozi, i caffè e i ristoranti aperti. Ovunque le vetrine e le finestre sono oscurate da pannelli di protezione, si fatica a trovare un palazzo che abbia tutti i vetri intatti («quando non sono stati i missili sono state le bombe a grappolo», giurano testimoni dei primi giorni di guerra, i più cruenti).
Senza casa
«Abbiamo nove distretti e tutti vengono bombardati. Non c’è nessun quartiere, nessun luogo della città che si possa dire totalmente sicuro», commenta il sindaco, Ihor Terekhov. Che non vuole dire quante croci conta la sua città («molte centinaia») ma dice che più di 150 mila persone sono rimaste senza casa e che nei giorni buoni — quelli di inizio maggio — i suoi cittadini erano tornati al ritmo di 2 mila al giorno, le piccole imprese avevano provato a ricominciare, la gente era uscita dalla metropolitana diventata casa, migliaia di quegli sfollati vissuti sotto terra per due mesi e mezzo avevano trovato una sistemazione. «E invece adesso…».
La gente del sottosuolo
Ancora oggi, dopo 158 giorni, ci sono fra le 100 e le 150 persone che vivono fra treni e banchine nella «Eroi del lavoro», l’ultima stazione del metrò in direzione nord-est, proprio sotto i piedi di Saltivka, il quartiere più bombardato e abbandonato della città. Il mondo di sopra ha palazzi neri di fumo e vuoti di persone, è senz’acqua, né gas né corrente elettrica. I pochi abitanti rimasti sono come fantasmi: «Viviamo in un luogo che non esiste più, in case irriconoscibili, ogni esplosione è una nuova ferita». Il mondo di sotto ha bambini che giocano felici ai piedi di un letto a castello, fra i tornelli delle biglietterie e i cartelloni pubblicitari; ha signore che scaldano l’acqua per farsi la doccia, gatti che sonnecchiano, gente che legge sdraiata su cumuli di coperte e altra che prega il cielo di salvare l’Ucraina perché, «Signore, noi ce la meritiamo la salvezza».
Fingiamo di essere in campeggio»
Maria, 70 anni, racconta che è arrivata a bordo di un carro armato, il 27 febbraio. Anche Zinaida, 71 anni, vive là sotto dal 27 febbraio con sua figlia Zhenia, 50 anni. «Il nostro palazzo è inagibile. Non abbiamo più niente. Dove andiamo?». Essere vicini a casa dà l’illusione di poterci tornare presto. Se le chiedi come passa le giornate Zhenia risponde per sé e per le altre che si riuniscono attorno: «Inganniamo la vita facendo le cose che facciamo sempre: sveglia alla solita ora, igiene personale, andiamo fuori a far prendere aria alle coperte, ci siamo fatte perfino la piega… Fingiamo di essere in campeggio. Ma nessuno vuole rimanere qui per l’inverno».
Il dottor Bukto
Ci si abitua anche a condizioni che magari un tempo sembravano impossibili. Valery Bukto, per esempio. Ha 68 anni ed è il primario di neurochirurgia del City Hospital of Ambulance and Emergency Help. Da quando è scoppiata la guerra sarà tornato a casa tre-quattro volte, solo per controllare che fosse ancora in piedi. «Dormo qui in ospedale», dice, «perché c’è bisogno di me, non c’è giorno che non arrivino civili feriti dalle schegge». Il dottor Bukto si commuove mentre racconta di operazioni complicate, di vite salvate, del suo «team fantastico del blocco operatorio» e dei suoi tre figli che non vede da un po’.
Il guardiano del niente
A Kharkiv ci sono decine di migliaia di padri che non vedono da mesi i figli, mandati al sicuro lontano dalle bombe. Andrij Semeniuk, 54 anni, è uno di loro. Il suo ragazzo è andato in Israele e lui è rimasto a lavorare per la security del Barabashovo,uno dei più grandi mercati d’Europa che un attacco missilistico ha semidistrutto il 17 di marzo. Non si capisce che cosa debba sorvegliare, adesso, se non un immenso cumulo di ferraglia deformata dal fuoco. Ma per Andrij quella ferraglia è un bel po’ della sua vita e «non importa, io vengo qui e faccio il giro come se ci fossero ancora tutti». Come se ci fosse ancora il vociare della gente, i negozietti aperti, le merci davanti alle porte, i pacchi da caricare e scaricare…Come se fossimo ancora al 23 febbraio.
30 luglio 2022 (modifica il 30 luglio 2022 | 21:52)
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