La dispersione intellettiva che non coglie lInvalsi. Lettera

La dispersione intellettiva che non coglie lInvalsi. Lettera

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inviata da Michele Canalini – Siamo a luglio e, come una inesorabile canicola, arrivano pure i risultati del Rapporto Invalsi 2023, come sempre, oggetto di controversie e di non poche polemiche. Anzi, il grido d’allarme sulle incapacità degli studenti italiani ritorna con puntuale cadenza a ogni estate, come le allerte mefistofeliche sui picchi di calore.

Tuttavia, sono due gli aspetti del Rapporto che invitano alla riflessione: il parziale coinvolgimento psicologico di tutti gli studenti chiamati a effettuare le prove dell’Invalsi e la scarsa efficacia, ad oggi, della scuola italiana nel contrasto alle diseguaglianze sociali.

Andiamo con ordine e partiamo dal primo punto, ovvero il coinvolgimento degli studenti. Quando arriva il giorno dell’esercitazione ufficiale dell’Invalsi, i ragazzi a scuola possono essere pure irreprensibili nell’approccio alla prova ma è difficile da parte degli insegnanti motivarli di fronte a un test di cui gli stessi ragazzi non conosceranno il risultato durante l’anno e che alla fine, svolgimento della prova a parte, non avrà alcuna influenza sul loro profitto finale.

Insomma, se fino a quel momento gli insegnanti hanno utilizzato i voti per dare una valutazione in ogni disciplina di ciascun allievo (“costringendolo allo studio e all’impegno”, diciamo così), perché questi poi dovrebbero dare il meglio di sé in una prova che a loro non serve a niente e per cui non riceveranno un giudizio diretto? Lo dovrebbero forse fare, per agevolare una rilevazione nazionale dell’istruzione pubblica, che gli stessi sentono quanto mai lontana da loro perché, in fondo, indifferente e avulsa dai loro bisogni? Chi, dunque, se la sentirebbe di confutare il punto di vista degli studenti, sia esso esplicito (“Che noia, a chi serve questo Invalsi?”), sia esso inconscio (“Faccio la prova come cavolo mi pare, tanto nessuno lo verrà a sapere, almeno per quel che riguarda i miei prof!”)?

Le stesse prove, poi, strutturate per gran parte su risposte chiuse, mostrano un taglio poco empatico nei confronti del candidato, esigendo per gran parte la soluzione corretta di un quesito e sopprimendo o, meglio, trascurando del tutto l’aspetto creativo e critico di ogni studente. Un fatto è fornire una riposta digitata correttamente su una tastiera (ciò che accade per la scuola secondaria), un altro è fornire una tua opinione su un argomento, magari oggetto di studio, ma non richiesto necessariamente in modo nozionistico.

Per questo, ritengo più interessante lo svolgimento delle prove scritte dell’esame di Stato e, per il mio ruolo di docente di lettere, proprio la prima prova. Perché proprio su questi elaborati varrebbe la pena di fare un lavoro di rilevazione, magari a campione e proprio al termine del secondo ciclo scolastico. Oppure basare la strutturazione delle esercitazioni dell’Invalsi sulla falsariga degli scritti della Maturità. Perché, anzitutto, questi ultimi sono richiesti con una scrittura a penna, da parte degli studenti. E qui appare già un non trascurabile elemento di distonia dell’apprendimento, che l’Invalsi oggi non è affatto in grado di cogliere: infatti stanno pericolosamente aumentando gli studenti che non sono più capaci – proprio manualmente – di scrivere in corsivo, mentre non ho ancora incontrato alcun ragazzo che non sappia usare il pc o lo
smartphone, sia pure per digitare un testo di varia lunghezza. Forse, avrebbe più senso, in termini censuari, incentivare allo “sforzo” della scrittura a mano e magari considerare un campione delle prove – scritte a penna – per aree geografiche; mentre darei, invece, quasi per acquisite le competenze digitali degli apprendenti.

In più, come spesso capita, dagli elaborati delle prime prove della Maturità emergono risultati molto più incoraggianti rispetto a quanto rilevato aridamente dall’Invalsi: se è vero che un candidato possa dimostrare di non avere compreso per intero un brano che gli è stato assegnato su un foglio durante l’esame di Stato (ma questo vale per pochi, almeno dalla mia esperienza), dall’altro si dimostra che lo stesso candidato con tutta probabilità ha comunque compreso lo spirito di fondo del testo sottoposto alla sua attenzione e si è mostrato, a sua volta, capace di rielaborare con spirito critico quanto gli veniva richiesto dalla traccia (e non gli veniva invece chiesto di rispondere solo con taglio esclusivamente nozionistico). In più, alcuni elaborati mostrano delle prese di posizione dei ragazzi che lasciano ben sperare per la maturazione emotiva e cognitiva delle nuove generazioni, e magari sono state le stesse penne che, all’esercitazione Invalsi, hanno anonimamente dimostrato di non sapere “comprendere quello che si legge”, come
spesso titolano molti quotidiani e organi di informazione quando giungono a conoscenza dei vari “Rapporti Invalsi annuali”, presentati al ministero e alla Camera.

In aggiunta a ciò, mi chiedo: se da un lato queste rilevazioni sono efficaci nel mostrare il grado di dispersione implicita (cioè la mancanza di acquisizione di competenze base di chi riesce a conseguire il diploma) nella scuola italiana, sono altrettanto efficaci nel saper mettere in luce le allarmanti differenze – mai adeguatamente sottolineate a livello mediatico – tra un’istruzione di provincia e un’istruzione metropolitana? O, meglio ancora, tra un adolescente che frequenta una scuola di montagna, di un borgo, di una periferia suburbana e un adolescente che frequenta un istituto di una grande città? Tali test, dunque, sono in grado di intercettare il grado di dispersione intellettiva, cioè la competenza interpretativa da nessuna istituzione coltivata, dei nostri ragazzi?

Quanto non sappiamo di ciò che pensano i nostri allievi e quali sono le loro capacità di produrre, inventare o formulare idee e progetti originali o creativi?

E qui, infatti, torniamo al secondo aspetto dell’analisi da cui siamo partiti: la scarsa efficacia, anche nel 2023, della scuola italiana nel contrasto alle diseguaglianze sociali. Di quello che riferisce il Rapporto 2023, ciò che mi ha colpito maggiormente è il dato relativo a “Italiano” per quanto riguarda gli studenti dell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado: “In Italiano il 51% degli studenti (-1 punto rispetto al 2022) raggiunge almeno il livello base. Il divario tra Nord e Sud raggiunge la quota di ben 23 punti percentuali”. A ciò, si aggiunge che a livello complessivo la dispersione scolastica implicita si attesta all’8,7%.

Tuttavia, è doveroso ricordare che le prove dell’Invalsi, le quali vanno sapute leggere e non stigmatizzate in modo aprioristico, si basano pur sempre su un’analisi di gruppi di studenti, tralasciando per forza di cose la singola realtà pedagogica di ogni allievo che costituisce invece, come sanno bene gli insegnanti, quella personalizzazione della didattica che rappresenta il cuore di qualsiasi azione educativa.

In conclusione, alla luce di questi dati bisogna stare attenti a non cedere a interpretazioni semplicistiche: infatti, tutto questo non significa affatto che non ci siano istituti di eccellenza nel Meridione (anzi, negli ultimi anni sono saliti agli onori della cronaca alcuni istituti campani e pugliesi, rispettivamente in graduatorie di eccellenza internazionale e alle olimpiadi nazionali di matematica) ma conferma il fatto che il problema resti di natura sociale: non è un problema di apprendimenti ma di opportunità di apprendimenti. Una differenza enorme e, a questo punto, sostanziale.

Così come resta sostanziale il fatto che, con questi risultati, qualcosa sicuramente non va bene, sia a livello di chi è oggetto della rilevazione sia a livello di chi fa la rilevazione. Perché, al di là di come vogliamo chiamarla, noi ogni estate ci ritroviamo a fare i conti con la dispersione scolastica, che sia esplicita o implicita, o intellettiva, come io ho suggerito. Pur sempre di dispersione delle nostre migliori e giovani risorse si tratta.

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