Una nuova legge pone l’amministrazione Biden di fronte a un dilemma che presto anche noi dovremo affrontare: sanzionare aziende e Paesi che non tutelano i diritti umani (e incorrere in altri choc da scarsità) o chiudere gli occhi sui crimini contro le minoranze?
Accelerare l’uso di energie rinnovabili significa accettare l’oppressione delle minoranze in Cina, e consegnarsi a una pericolosa dipendenza dal regime di Pechino? L’interrogativo si pone subito per Joe Biden. In prospettiva ci riguarda tutti.
È entrata oggi in vigore negli Stati Uniti la legge chiamata Uyghur Forced Labor Prevention Act. Il suo scopo è nobile: contrastare gli abusi contro i diritti umani nella regione cinese dello Xinjiang, in particolare lo sfruttamento di manodopera sottoposta ai lavori forzati nella minoranza etnica degli uiguri, popolazione turcomanna di religione islamica.
I suoi effetti però potrebbero essere catastrofici per l’America su un terreno cruciale: la transizione verso un’economia più sostenibile, il taglio delle emissioni carboniche.
Nello Xinjiang infatti si concentra una quota considerevole della produzione mondiale di minerali, metalli e componenti usati nei pannelli solari e nelle batterie per auto elettriche.
Né l’America né gli altri paesi avanzati dell’Occidente sono in grado di fare a meno di queste forniture, di sicuro non nel breve o medio termine.
La questione è talmente cruciale che il New York Times in prima pagina s’interroga sul dilemma a cui l’Amministrazione Biden è messa di fronte a partire da oggi: applicare la legge a tutela degli uiguri e andare incontro a un nuovo choc da scarsità, stavolta nelle energie rinnovabili; oppure ignorare di fatto una norma in vigore e chiudere gli occhi sui crimini contro le minoranze, pur di mantenere il flusso di importazioni dalla Cina in settori essenziali.
La situazione è emblematica dei problemi a cui l’Occidente sarà posto di fronte via via che cerca di ridurre la sua dipendenza dalle energie fossili.
Ecco alcuni dati, ricavati dall’inchiesta del New York Times.
La Cina lavora dal 50% al 100% di tutto il litio, nickel, cobalto, manganesio e grafite usati nel mondo.
Buona parte di questi minerali o metalli vengono in realtà estratti altrove, dall’Argentina all’Australia alla Repubblica democratica del Congo.
È in Cina però che vengono trasformati e usati, per esempio nella produzione dell’80% delle cellule che fanno funzionare le batterie al litio delle auto elettriche.
Nella catena produttiva mondiale, le miniere sono disseminate in tre continenti, ma quasi tutte le strade della lavorazione di quelle materie prime attraversano la Cina.
I tre quarti delle batterie per veicoli elettrici sono made in China; anche quelle che non lo sono, spesso incorporano dei componenti prodotti in quel Paese.
Uno dei giganti cinesi del settore è lo Xinjiang Nonferrous Metal Industry Group. Questo colosso trasforma un ampio ventaglio di minerali e metalli, inclusi zinco, cobalto, berillio, vanadio, piombo, rame, oro e platino. Li vende nel mondo intero a settori industriali che vanno dall’elettronica alla farmaceutica, dalla gioielleria all’edilizia. È anche uno dei massimi produttori mondiali di catodi al nickel usati nelle batterie.
Le batterie saranno destinate ad avere un’importanza crescente via via che adottiamo energie rinnovabili. Oltre a essere indispensabili per le auto elettriche, le batterie di nuova generazione devono ovviare a quella che rimane tuttora la principale limitazione delle energie pulite: il sole e il vento non sono disponibili 24 ore su 24 né per 365 giorni all’anno, quindi le tecnologie per immagazzinare l’energia sono essenziali.
La legge Uyghur Forced Labor Prevention Act impone di fornire prove che le importazioni di prodotti cinesi negli Usa non abbiano nulla a che fare con l’uso di manodopera sottoposta ai lavori forzati.
Lo Xinjiang Nonferrous Metal Industries Group è proprio una di quelle aziende che collabora con il proprio governo per il trasferimento forzoso nelle sue miniere — o deportazione — di lavoratori in quella regione. È assai improbabile che riuscirebbe a dimostrare di rispettare i criteri della legge americana.
Lo stesso governo di Pechino, che respinge con sdegno le accuse sui lavori forzati, si oppone a qualsiasi ispezione in loco che considera un’interferenza in affari interni.
Per Biden la scelta non è facile. Se tiene duro sul regime di sanzioni, precipita in una penuria grave vasti settori industriali americani tra cui le centrali solari e l’auto elettrica. Se chiude un occhio e ordina alle sue dogane di non applicare la legge, si espone all’accusa di avallare l’oppressione degli uiguri e di piegarsi ai diktat di Pechino; inoltre prolunga a oltranza la dipendenza dal made in China. Un dilemma analogo si è posto di recente quando delle aziende americane che producono pannelli solari hanno denunciato le importazioni illegali di apparecchi fotovoltaici cinesi «travestiti» come se fossero fabbricati in Vietnam e altre zone del sud-est asiatico per aggirare dazi e restrizioni.
L’Amministrazione Biden ha evitato di chiudere le frontiere al made in China nonostante la violazione della legge, perché altrimenti l’installazione di nuovi pannelli solari subirebbe un rallentamento pesante.
Su tutto pesa anche il prossimo appuntamento elettorale di novembre, quel voto di mid-term dove il partito democratico rischia di perdere la maggioranza al Congresso. I repubblicani non mancheranno di descrivere Biden come un leader incapace di tenere testa a Xi Jinping.
21 giugno 2022 (modifica il 21 giugno 2022 | 17:52)
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, 2022-06-21 22:25:00, Una nuova legge pone l’amministrazione Biden di fronte a un dilemma che presto anche noi dovremo affrontare: sanzionare aziende e Paesi che non tutelano i diritti umani (e incorrere in altri choc da scarsità) o chiudere gli occhi sui crimini contro le minoranze?,