La pazienza di Don Lisander a 150 anni dalla morte

La pazienza di Don Lisander a 150 anni dalla morte

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Moriva nel 1875, il 22 maggio, Alessandro Manzoni, aveva 88 anni, il maggiore scrittore della nostra letteratura. Il più letto sicuramente ma forse pure il meno amato dagli alunni, tranne ad accorgersi, a distanza di anni o in età matura, che meritava altro approccio a scuola. 

È una sorta di amaro destino che molti grandi autori si portano appresso quando le loro opere sono imposte d’imperio e senza le dovute accortezze e attenzioni nelle aule. Contribuirebbe forse la lettera ad alta voce in classe, come in altri ambiti fa Benigni con Dante o Vittorio Sermonti o una più attenta attualizzazione, sta però di fatto che don Lisander, come affettuosamente lo chiamavano i milanesi, è così grande nella sua grandezza che talvolta se ne perde lo spessore. 

Parlando di lui si pensa subito ai “Promessi sposi”, si pensa alle sue fatiche per usare una lingua assolutamente cristallina e limpida, al suo stile netto come i cieli d’estate, e si scorda un capolavoro come la “Storia della colonna infame”, insieme alle comedie e ai canti, agli inni sacri ecc., facendone scaturire una prosa autenticamente nazionale che  conquistò gli italiani.

Nello steso tempo, si sottolinea pure poco la sua adesione alle esperienze del romanzo storico europeo, in particolare ai romanzi di Walter Scott, mentre Wolfgang  Goethe lo elogiava capendone bene la grandezza, nonché l’esigenza autorevole di richiamare la storia d’Italia per indicare una nuova prospettiva di Patria ai patrioti: 

Dagli antri muschiosi, dai Fori candenti

Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.

L’Idea di Nazione sta anche in questi versi, oltre che nel Marzo 1821.

Eppure per tanto tempo è passato il concetto che don Lisander fosse troppo prudente con gli austriaci occupatori della Lombardia, accondiscendente, misurato al contrario dei rivoluzionari alla Foscolo.

La sua vita infatti, e nel “68 spesso se ne faceva riferimento ma dimostrando che il fervore culturale all’epoca era potente, è stata oggetto di ricorrenti sospetti e maldicenze, fomentate  dal suo temperamento che amava circondarsi di pochi ma fedeli amici come Tommaso Grossi o Rosmini.

Sposò Enrichetta Blondel, svizzera di religione calvinista, la moglie ideale, discreta e devota e che in qualche modo ricondusse Manzoni alla fede religiosa di cui il suo romanzo principale è infarcito.

Alla sua morte sposò Teresa Stampa Borri, la seconda moglie che si innamora di lui, prima ancora di conoscerlo, dopo aver letto la prima edizione de I Promessi Sposi. Vedova, ricca e molto giovanile, nessuno immaginava che lui si risposasse a cinquant’anni.

Dalle descrizioni che ne fa la moglie, afferma una recente critica, esce un don Lisander “ben diverso, forse anomalo rispetto a quello che ci hanno tramandato, «una figura nel migliore dei casi noiosa, nel peggiore odiata…», sicuramento poco conosciuta”. 

Dopo la scomparsa della moglie, il 23 agosto 1861, don Lisander ebbe numerosi riconoscimenti pubblici. Nel 1870 venne nominato senatore, due anni dopo gli venne conferita la cittadinanza romana. Per il primo anniversario della sua morte, il suo ammiratore Giuseppe Verdi lo commemorò con una sublime messa di requiem.

E proprio a questo punto vorremmo sibilare un’altra pennellata critica ai “Promessi sposi”: chi era il padre di Lucia Mondella? Manzoni mai ne parla.  E siamo proprio certi che don Rodrigo volesse Lucia nel suo palazzo per concupirla? 

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