La storia di Alisa, in fuga dall’Ucraina: «Così siamo partiti in nove, portando anche i nostri due cani»

La storia di Alisa, in fuga dall’Ucraina: «Così siamo partiti in nove, portando anche i nostri due cani»

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Alisa, 35 anni, è una programmatrice informatica che lavora(va) per un’azienda tedesca a Kyiv. È riuscita a fuggire in Polonia grazie all’aiuto dei suoi datori di lavoro, ma ha dovuto lasciare il marito, che è stato richiamato sotto le armi per difendere l’Ucraina dall’aggressione brutale e ingiustificata di Putin. Il “Guardian” ha raccolto la sua testimonianza: una tra le mille, tra le diecimila, tra le centomila.

La guerra rende anonima e insignificante la morte, figuriamoci la vita. Per questo dobbiamo sforzarci di dare un nome, un volto, una storia ad ogni singolo profugo, ad ogni singola vittima.

Nell’universo totalitario di Putin non esistono gli individui, non esistono diritti individuali: le mamme e i papà russi non possono neppure piangere i loro figli morti, ormai a migliaia, perché per Putin non esistono i singoli soldati, ma soltanto i piani strategici. Il suo potere si fonda sul disprezzo per ogni singola persona, non importa se sono russi o ucraini.

«Abbiamo lasciato Kyiv – racconta Alisa – su una piccola Peugeot 307. Eravamo in nove: io, mia madre, mia sorella, i nostri due mariti, quattro bambini e due grossi cani, fra cui un pastore tedesco anziano. Muoversi nella macchina era impossibile. Abbiamo guidato per sedici ore fino ad un villaggio a circa 140 km dalla capitale. Abbiamo deciso di lasciare il villaggio perché anche lì c’era pericolo. Vicino al confine con la Polonia c’era un colossale ingorgo automobilistico: non potevamo restare in macchina per altri tre o cinque giorni, e così abbiamo deciso di camminare per gli ultimi diciassette chilometri prima del confine. Siamo partiti alle quattro di notte, il termometro segnava meno sette. I miei figli piangevano per il freddo».

Pulya, la femmina di pastore tedesco, è però troppo anziana e malmessa, ha quasi tredici anni e incespica, cade a terra, non riesce a sollevarsi. «Ho fermato diverse macchine per chiedere aiuto – prosegue Alisa – ma tutti si sono rifiutati: ci hanno consigliato di lasciare i cani. Ma i nostri cani sono parte della nostra famiglia. La mia cagna ha vissuto con noi tutti i momenti felici e i momenti tristi. E il cane di mia mamma è tutto ciò che le resta della sua vita precedente. Così mio marito si è caricato il cane in spalla, e siamo andati avanti».

Arrivati al confine, la famiglia deve separarsi: il marito di Alisa non può espatriare, c’è la mobilitazione generale per tutti gli uomini abili. «È tornato indietro – racconta ancora Alisa – nel suo villaggio per occuparsi della madre e della nonna. Quasi tutti, lì, hanno più di sessant’anni. Non ci sono negozi, farmacia, acqua o cibo. Per riscaldarsi usano il fuoco».

Il meccanismo dello sterminio degli innocenti funziona sempre allo stesso modo: persone normali, normalissime, persone con una vita qualunque intessuta di piccole gioie e di sofferenze non sempre piccole, persone che non c’entrano niente, ma proprio niente, e che improvvisamente devono scappare, vengono uccise, la loro casa è distrutta, il lavoro è perduto: una personale, e anonima, e irragionevole fine del mondo decretata da un dittatore che non conosce il significato della parola «persona».

13 marzo 2022 (modifica il 13 marzo 2022 | 16:25)

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, 2022-03-18 09:09:00, La donna, 35 anni, è fuggita dall’Ucraina insieme alla sua famiglia: «Siamo partiti alle quattro di notte, il termometro segnava meno sette. I miei figli piangevano per il freddo», Fabrizio Rondolino

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