di Goffredo Buccini Dall’America all’Europa, sotto la pressione di concrete urgenze sovranazionali come Covid e guerra, il populismo ha mostrato la corda, attraversando lunghi mesi di afasia nel dibattito pubblico. Tuttavia, la notizia della sua morte appare, parafrasando liberamente il papà di Tom Sawyer, assai esagerata. In buona misura i tormenti di Emmanuel Macron, stretto nella tenaglia di due tribuni quali Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, lo anticipano anche a noi italiani: lasciandoci prefigurare, dal nostro lato delle Alpi, sussulti ben più significativi, anche perché accentuati da una sciagurata legge elettorale che pare non si riesca a cambiare. Le fratture nel fronte populista nostrano non devono illuderci troppo, almeno finché resteranno in campo le ragioni che ne determinarono a suo tempo il successo. Rammentiamolo a noi stessi: per come s’è inverato nella storia, il populismo ha mostrato finora una straordinaria capacità di evocare problemi e una scarsissima propensione a risolverli. Trump non è venuto a capo della crisi dei blue collar, ne è solo stato un megafono. Gli inglesi usciti dalla Ue tutto hanno visto fuorché la cornucopia di fondi per la sanità promessa loro durante la campagna del «Leave». Dalle nostre parti ancora stiamo aspettando il rimpatrio di mezzo milione di immigrati irregolari (sic), messo addirittura nero su bianco nel contratto di governo tra Lega e Cinque Stelle del 2018. Le risposte dei populisti sono dicotomiche: sì o no, amico o nemico. Per costoro «non esistono problemi complicati, ma unicamente soluzioni semplici… Il loro regime di storicità è il presentismo», osservavano Ilvo Diamanti e Marc Lazar in un fortunato saggio di quattro anni fa, uscito mentre l’Italia celebrava il suo esecutivo dal doppio populismo, caso unico in Europa. L’attività politica diventa insomma una concatenazione di annunci su Twitter e Facebook, solida come un battito d’ali di farfalla. Per alcuni, certo, l’impatto con la realtà è stato salvifico. Uno tra i più giovani e brillanti populisti nostrani, dopo avere esultato da un balcone nientemeno che per la sconfitta della povertà, ha iniziato a studiare, a esternare con più misura e s’è acconciato a ben più ragionevoli posture governative, sino a dichiarare che «uno non vale l’altro». Può apparire la scoperta dell’ovvio. Ma, in un Paese come il nostro, illuso davvero che un debito pubblico da oltre duemila miliardi potesse conciliarsi con reddito di cittadinanza e quota 100 (due regali in contemporanea, figli di due diverse promesse populiste) il giovane in questione, Luigi Di Maio, è stato poi colpito dagli strali dei suoi ex compagni di miraggio e resta da vedere quale sarà la ricaduta ultima di questo doloroso strappo. Considerare la scomposizione pentastellata (e persino la crisi del leghismo nazionalista) come la fine della fascinazione populista può essere tuttavia un ottimistico abbaglio. Perché, nel frattempo, tra inflazione, caro bollette, penuria energetica, lavoro povero, spread, debito pubblico e imminenti nuovi flussi migratori causati dalla carestia africana derivata dalla guerra, si addensa su di noi una tempesta che da qui al 2023 può gonfiare le vele a populisti già rodati o di nuovo conio. Le parole anticipano del resto una linea, quando non la creano. Sicché, il più che previsto rialzo dei tassi d’interesse e la frenata sui debiti sovrani, decisi da Christine Lagarde quale misura necessaria per raffreddare la corsa dei prezzi, diventano un «complotto contro l’Italia» nella propaganda di taluni, mentre è storia di sempre che a congiurarci contro siamo noi stessi, in un Paese propenso a spendere più di quanto produce. Alla stessa stregua, il delicatissimo tema del salario minimo viene affrontato con uno slogan di sicuro effetto («basta paghe da fame») e una menzogna («l’Europa ce lo chiede»). Ora, nella sua direttiva sul salario minimo l’Europa non ci chiede alcunché, essendo l’Italia tra i pochi Paesi virtuosi dotati di una robusta percentuale di contrattazione collettiva (oltre l’80%). Il problema dei salari è tuttavia reale e gravissimo, legato com’è alla condizione di milioni di lavoratori i quali, pur avendo un impiego, non riescono ad arrivare alla fine del mese. Ma è questione diversa dal salario minimo, come s’affanna a spiegare, senza troppo ascolto, il ministro Brunetta: una misura, quella, ove mai fosse assunta, che andrebbe raccordata comunque con la contrattazione collettiva per non indebolire i diritti dei lavoratori. Quanto alla debolezza dei salari, addirittura caduti di valore in trent’anni, Alberto Mingardi su queste colonne ha spiegato con efficacia come la remunerazione del lavoro sia una cartina di tornasole dello stato di salute di un Paese: essa dipende insomma dal sistema formativo e dalla modernità dei processi tecnologici, dalla certezza del diritto e dalle riforme fatte o mancate; pensare di modificarla con una misura-bandiera, peraltro mischiando i termini della questione, appare la prima concessione della politica nostrana alla grande corsa elettorale ormai già iniziata. Molte altre ne seguiranno, c’è da scommetterci. Perché, ripetiamolo, i problemi degli italiani sono tutt’altro che immaginari e il rientro autunnale rischia di acuirli tutti assieme. I rapporti della Commissione europea, pur lodando il nostro percorso di risanamento e l’opera del governo Draghi, stanno lì a ricordarci che «il rischio di esclusione sociale rimane elevato», che «il sistema fiscale ostacola» la nostra efficienza, certificando un divario tra Nord e Sud che, ribadisce Bankitalia, nell’ultimo decennio si è ancora allargato. Non c’è bisogno di compulsare l’indice di Gini per scoprire diseguaglianze che stanno sul nostro pianerottolo, dietro la serranda del negozio che resta calata, nelle file di italiani e migranti alla Caritas, dentro le «iniquità scandalose» su cui ci ammonisce il cardinale Zuppi. E, poiché una ragione delle credenze è alleviare dolori e sofferenza, quest’Italia in affanno può diventare di nuovo facile bacino per il populismo. Dunque, non sembri troppo chiedere ai partiti un sussulto di responsabilità repubblicana almeno nei prossimi mesi: magari accompagnato da robuste (e pragmatiche) riforme. 25 giugno 2022 (modifica il 25 giugno 2022 | 21:04) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-06-25 19:05:00, di Goffredo Buccini Dall’America all’Europa, sotto la pressione di concrete urgenze sovranazionali come Covid e guerra, il populismo ha mostrato la corda, attraversando lunghi mesi di afasia nel dibattito pubblico. Tuttavia, la notizia della sua morte appare, parafrasando liberamente il papà di Tom Sawyer, assai esagerata. In buona misura i tormenti di Emmanuel Macron, stretto nella tenaglia di due tribuni quali Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, lo anticipano anche a noi italiani: lasciandoci prefigurare, dal nostro lato delle Alpi, sussulti ben più significativi, anche perché accentuati da una sciagurata legge elettorale che pare non si riesca a cambiare. Le fratture nel fronte populista nostrano non devono illuderci troppo, almeno finché resteranno in campo le ragioni che ne determinarono a suo tempo il successo. Rammentiamolo a noi stessi: per come s’è inverato nella storia, il populismo ha mostrato finora una straordinaria capacità di evocare problemi e una scarsissima propensione a risolverli. Trump non è venuto a capo della crisi dei blue collar, ne è solo stato un megafono. Gli inglesi usciti dalla Ue tutto hanno visto fuorché la cornucopia di fondi per la sanità promessa loro durante la campagna del «Leave». Dalle nostre parti ancora stiamo aspettando il rimpatrio di mezzo milione di immigrati irregolari (sic), messo addirittura nero su bianco nel contratto di governo tra Lega e Cinque Stelle del 2018. Le risposte dei populisti sono dicotomiche: sì o no, amico o nemico. Per costoro «non esistono problemi complicati, ma unicamente soluzioni semplici… Il loro regime di storicità è il presentismo», osservavano Ilvo Diamanti e Marc Lazar in un fortunato saggio di quattro anni fa, uscito mentre l’Italia celebrava il suo esecutivo dal doppio populismo, caso unico in Europa. L’attività politica diventa insomma una concatenazione di annunci su Twitter e Facebook, solida come un battito d’ali di farfalla. Per alcuni, certo, l’impatto con la realtà è stato salvifico. Uno tra i più giovani e brillanti populisti nostrani, dopo avere esultato da un balcone nientemeno che per la sconfitta della povertà, ha iniziato a studiare, a esternare con più misura e s’è acconciato a ben più ragionevoli posture governative, sino a dichiarare che «uno non vale l’altro». Può apparire la scoperta dell’ovvio. Ma, in un Paese come il nostro, illuso davvero che un debito pubblico da oltre duemila miliardi potesse conciliarsi con reddito di cittadinanza e quota 100 (due regali in contemporanea, figli di due diverse promesse populiste) il giovane in questione, Luigi Di Maio, è stato poi colpito dagli strali dei suoi ex compagni di miraggio e resta da vedere quale sarà la ricaduta ultima di questo doloroso strappo. Considerare la scomposizione pentastellata (e persino la crisi del leghismo nazionalista) come la fine della fascinazione populista può essere tuttavia un ottimistico abbaglio. Perché, nel frattempo, tra inflazione, caro bollette, penuria energetica, lavoro povero, spread, debito pubblico e imminenti nuovi flussi migratori causati dalla carestia africana derivata dalla guerra, si addensa su di noi una tempesta che da qui al 2023 può gonfiare le vele a populisti già rodati o di nuovo conio. Le parole anticipano del resto una linea, quando non la creano. Sicché, il più che previsto rialzo dei tassi d’interesse e la frenata sui debiti sovrani, decisi da Christine Lagarde quale misura necessaria per raffreddare la corsa dei prezzi, diventano un «complotto contro l’Italia» nella propaganda di taluni, mentre è storia di sempre che a congiurarci contro siamo noi stessi, in un Paese propenso a spendere più di quanto produce. Alla stessa stregua, il delicatissimo tema del salario minimo viene affrontato con uno slogan di sicuro effetto («basta paghe da fame») e una menzogna («l’Europa ce lo chiede»). Ora, nella sua direttiva sul salario minimo l’Europa non ci chiede alcunché, essendo l’Italia tra i pochi Paesi virtuosi dotati di una robusta percentuale di contrattazione collettiva (oltre l’80%). Il problema dei salari è tuttavia reale e gravissimo, legato com’è alla condizione di milioni di lavoratori i quali, pur avendo un impiego, non riescono ad arrivare alla fine del mese. Ma è questione diversa dal salario minimo, come s’affanna a spiegare, senza troppo ascolto, il ministro Brunetta: una misura, quella, ove mai fosse assunta, che andrebbe raccordata comunque con la contrattazione collettiva per non indebolire i diritti dei lavoratori. Quanto alla debolezza dei salari, addirittura caduti di valore in trent’anni, Alberto Mingardi su queste colonne ha spiegato con efficacia come la remunerazione del lavoro sia una cartina di tornasole dello stato di salute di un Paese: essa dipende insomma dal sistema formativo e dalla modernità dei processi tecnologici, dalla certezza del diritto e dalle riforme fatte o mancate; pensare di modificarla con una misura-bandiera, peraltro mischiando i termini della questione, appare la prima concessione della politica nostrana alla grande corsa elettorale ormai già iniziata. Molte altre ne seguiranno, c’è da scommetterci. Perché, ripetiamolo, i problemi degli italiani sono tutt’altro che immaginari e il rientro autunnale rischia di acuirli tutti assieme. I rapporti della Commissione europea, pur lodando il nostro percorso di risanamento e l’opera del governo Draghi, stanno lì a ricordarci che «il rischio di esclusione sociale rimane elevato», che «il sistema fiscale ostacola» la nostra efficienza, certificando un divario tra Nord e Sud che, ribadisce Bankitalia, nell’ultimo decennio si è ancora allargato. Non c’è bisogno di compulsare l’indice di Gini per scoprire diseguaglianze che stanno sul nostro pianerottolo, dietro la serranda del negozio che resta calata, nelle file di italiani e migranti alla Caritas, dentro le «iniquità scandalose» su cui ci ammonisce il cardinale Zuppi. E, poiché una ragione delle credenze è alleviare dolori e sofferenza, quest’Italia in affanno può diventare di nuovo facile bacino per il populismo. Dunque, non sembri troppo chiedere ai partiti un sussulto di responsabilità repubblicana almeno nei prossimi mesi: magari accompagnato da robuste (e pragmatiche) riforme. 25 giugno 2022 (modifica il 25 giugno 2022 | 21:04) © RIPRODUZIONE RISERVATA , Goffredo Buccini