di Renato Franco
L’attore e comico tra don Matteo e Sanremo: «Aver lavorato da giovane in una coop per persone fragili mi ha insegnato il valore della condivisione. Le cose belle che fai danno l’idea che un poco migliori la vita»
Attre o comico? «Quando sono in mezzo agli attori, quando faccio serie tv come Don Matteo mi presento come comico; quando sono sul palco di Zelig invece dico che faccio l’attore. Così la vivo da outsider, senza mettere tutte le fiches sul tavolo; lavoro in difesa, mi muovo meglio, si aspettano di meno». Maurizio Lastrico è anche la storia dell’operatore turistico che lascia il certo per l’incerto, fino ad arrivare a Sanremo che nel mondo dello spettacolo italiano è la nostra Hollywood.
Una parabola cominciata nel piccolo comune di Sant’Olcese (Genova) e cresciuta fino al successo strepitoso dell’Ariston. Due fidanzati – lui e Maria Chiara Giannetta – che si prendono e si lasciano, si dichiarano amore eterno e subito dopo litigano, ti amo e poi ti odio e viceversa, respingono Amadeus perché «il triangolo no, non l’avevo considerato». Un La La Land inaspettato. «Ai milioni di persone che guardavano – racconta Lastrico – era meglio non pensare, sentivo la responsabilità di essere al servizio di una collega che stava andando benissimo, anzi ero io a essere più agitato di lei. Mi sono preoccupato poco di pensare a uscirne bene io, non per un sentimento altruistico, ma per un istinto artistico; è stata una sorpresa vedere l’effetto che ha fatto».
Il lato etico
Un mese e mezzo di prove per un’esibizione da quattro minuti: «Sembra anti-produttivo, anche perché ormai abbiamo accettato l’idea che vale come esibizione il fatto che uno si sveglia, accende lo smartphone e dice ciao ragazzi, come state, oggi ho sonno; il meccanismo dei social è spudorato. Perché prepararsi così tanto se una cosa spontanea funziona su Instagram? La sorpresa positiva è che quel lavoro è stato riconosciuto, non è stata un’esibizione di sola tecnica ma è confluita in una narrazione leggera, che ha fatto ridere e sorridere le persone».
Anche il lavoro di «intrattenimento leggero» si può trasformare in un’utopia collettiva, ogni mestiere in fondo deve inseguire un suo lato etico. Qual è il suo? «Il lato etico è vedere che le cose belle che fai creano un sentimento di ringraziamento nelle persone, sembra di costruire qualcosa di concreto, qualcosa che in minima parte migliora la vita. Mi piacerebbe essere una persona ricordata per aver contribuito a fare qualcosa di bello, realizzare un lavoro ben fatto in qualunque mestiere è un ottimo contributo sociale. Nel mio campo ha una funzione ludica e di intrattenimento, lo definirei il metodo StanisLavstrico. E poi come dice Elio, potersi occupare con professionalità di scemate è un grande privilegio».
Sanremo è l’ultimo tassello. Il primo è stato quello di operatore turistico. «Mi sono diplomato e ho cercato in tutti i modi di trovare un lavoro serio: ci ho provato a fare quello che ti dicono i genitori. Ma sentivo una vocazione diversa e alla fine non ho potuto resistere alla chiamata della recitazione perché ho capito da subito l’effetto che faceva salire sul palco, già dalle prime recite, già suonando con un gruppo, già portando in scena le prime cose. Quando sei sul palco si crea un rapporto speciale con il pubblico sia in termini di attenzione sia di effetto comico; quando scopri il calore che arriva da una risata, quando provi la sensazione della comprensione di un tuo guizzo, beh, è un’emozione di cui è difficile fare a meno, ti senti accolto, amato, si crea qualcosa di magico. Vieni capito e viene ancor più voglia di creare cose nuove, alzare l’asticella e il livello di qualità».
In famiglia ha trovato solo appoggi. Il padre per certi versi è stato un riferimento umoristico: «Era un comico inconsapevole, aveva quella comicità genovese caustica, che oggi sarebbe ipercensurata in tv, una goliardia alla Amici miei, l’umorismo amaro genovese che viene usato sia per esorcizzare le sfighe, sia per minimizzare le fortune». La madre invece (come spesso succede) è stata la colonna: «Quando i miei si sono separati e lei è rimasta sola con me, si è fatta un mazzo tanto, faceva le pulizie in casa della gente; è stata una donna che con un’intelligenza emotiva unica ha sentito che quello era il mio bisogno; è stata lei a dirmi fai quello che ti senti; era felicissima quando ho lasciato il lavoro per iscrivermi all’Accademia, anche se significava iniziare di nuovo a mantenermi. Lei ci sballa ora, tutto quello che faccio per lei sono capolavori: Don Matteo è diventato Il padrino». Cosa rappresenta la fiction con Terence Hill? «Don Matteo regala tanta visibilità, che si traduce in date a teatro; è un terreno apparentemente superficiale ma dove c’è la possibilità di recitare veramente; è una palestra che ritrovi al cinema, a teatro, è la possibilità di crescere come attore».
Non solo operatore turistico. In principio c’è stato anche il ruolo di educatore. Un percorso personale che è diventato anche collettivo: «Quando i miei si sono separati avevo 11 anni, i servizi sociali nel mio comune funzionavano benissimo e all’epoca era meno usuale avere i genitori divorziati, mia mamma lavorava e frequentavo i servizi del doposcuola: si facevano i compiti, ci si dedicava ad attività ludiche, c’erano i campi estivi e gli incontri con gli psicologi. Gli educatori per me erano figure di riferimento, ho assimilato anche inconsciamente molti dei loro comportamenti; poi a 21 anni sono passato dall’altra parte e ho fatto per diverso tempo l’educatore in una cooperativa sociale a tempo pieno, ero nel mio: il valore della condivisione, il valore di un luogo di aggregazione non fanno reddito catastale ma sono il sale della vita, sono i ricordi che compongono la tua esistenza. Quel contatto per così tanto tempo con i ragazzi ha fatto bene anche al mio linguaggio, mi ha arricchito».
Sorprendere
Comicità e politicamente corretto: l’argomento è sempre vivo. Giusto mettere dei paletti o la comicità è zona franca? Oggi sembra che i social facciano da Psicopolizia orwelliana, decidono cosa si può dire e cosa no: «In Italia identifichiamo la persona sul palco e quello che dice con il suo pensiero; è poco accettato che chi è sopra un palco in realtà sta recitando un ruolo, un ruolo che è anche quello di sorprendere. Detto questo, il comico ha diverse wild card: può usare le parolacce, può esporre dei pensieri che abbiamo e non diciamo, o che non sono stati ancora verbalizzati. Il comico deve essere bravo a giocare sul confine del politicamente corretto, deve fare l’equilibrista: non può dire tutto, ma non ci sono argomenti tabù a prescindere. Se è osceno e basta vuol dire che non ha funzionato. Checco Zalone è uno di quelli che ha l’abilità di capire qual è il centimetro prima del confine. Se fai l’equilibrista e cadi non va bene; se hai sfidato la forza di gravità e resti sul filo invece arrivano gli applausi».
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5 aprile 2022 (modifica il 5 aprile 2022 | 04:58)
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, 2022-04-05 04:40:00, L’attore e comico tra don Matteo e Sanremo: «Aver lavorato da giovane in una coop per persone fragili mi ha insegnato il valore della condivisione. Le cose belle che fai danno l’idea che un poco migliori la vita», Renato Franco