DOMENICA 26 GIUGNO 2022
risponde Aldo Cazzullo
Caro Aldo,
leggo sul Corriere milanese di un detenuto che si è suicidato nel 2009; tra le criticità viene segnalato, in particolare, il sovraffollamento delle carceri. In quell’anno a San Vittorie vi erano 1.400 reclusi a fronte di 800 posti a disposizione. Ma per quale motivo lo Stato non costruisce altre carceri, visto che il problema è nazionale? Con gli oltre 33 miliardi sprecati per il bonus facciate 110%, non si potevano costruire altre carceri piuttosto che investirli anche in altre infrastrutture?
Alfredo Porro, Milano
Caro Alfredo,
In effetti da decenni si discute di come svuotare le carceri, anziché costruirne di nuove. Mi pare che sul tema si confrontino due retoriche. Quella rigorista, tipo «facciamolo marcire in prigione» e «chiudiamolo in cella e gettiamo la chiave». E quella garantista, per cui il carcere sarebbe una punizione medievale, una crudeltà insopportabile, un retaggio del passato. È evidente che nessuno deve marcire, e non ci sono chiavi che possano essere buttate. È meno evidente, invece, che il rifiuto del carcere è un altro aspetto della tipica mentalità italiana del rifiuto dello Stato, percepito come «altro» rispetto a noi se non come nemico; per cui il Palazzo di Giustizia diventa il Palazzaccio, il poliziotto lo sbirro, l’agente del fisco lo sceriffo di Nottingham. Il carcere serve fondamentalmente a tre cose. Impedire a una persona potenzialmente pericolosa di nuocere agli altri (non a caso il referendum per abolire il rischio di reiterazione del reato come motivo per la carcerazione preventiva non ha incontrato il favore popolare). Punire i reati, se possibile prevenirli con la deterrenza. E recuperare il detenuto, trasmettendogli valori, insegnandogli un lavoro, reinserendolo nella società. Le carceri italiane rischiano di fallire tutti e tre gli obiettivi, in particolare il terzo. Per il recupero dei detenuti, occorre che le carceri siano luoghi dove si possa vivere dignitosamente; questa dovrebbe essere la priorità, non «svuotare le galere», a rischio e pericolo delle potenziali vittime che stanno fuori e non hanno fatto nulla di male. Purtroppo, molte carceri italiane sono fatiscenti. Qualche tempo fa sono andato a presentare un libro a Regina Coeli: un carcere bene amministrato, dove i detenuti hanno biblioteche e laboratori; ma che senso ha una prigione nel cuore di Roma, o nel caso di San Vittore nel cuore di Milano? Gli edifici storici andrebbero valorizzati, nell’interesse della collettività, e i detenuti andrebbero recuperati in carceri moderne. Se non ci pensiamo ora, che abbiamo risorse da spendere, quando lo faremo? Sarebbero soldi investiti meglio rispetto a quelli del Superbonus, fonte di supertruffe; così come è una truffa allo Stato pure la speculazione che in poche settimane ha riportato i prezzi del carburante oltre i due euro al litro, là dove erano quando il governo ha tagliato le accise.
LE ALTRE LETTERE DI OGGI
Storia
«Così l’infermiere Peppe sposò la collega Peppa»
Si chiamava Giuseppe. Di professione faceva l’infermiere all’ospedale di Palestrina, in provincia di Roma, negli anni 50. Tutti, però, lo chiamavano Peppe il gobbo, o meglio, «er Gobbo». Non ricordo se nell’ospedale ci fosse un medico di turno; se c’era io non lo vidi mai. C’era lui però e, all’occorrenza, interveniva con alta professionalità. Lo affermo senza remore o dubbi. Infatti, per ben tre volte mi cucì le ferite (al piede, alla mano, al mento). Ero un ragazzino troppo vivace. Ricordo la raccomandazione del Gobbo a mio padre: «Lo tenga d’occhio perché suo figlio non conosce il pericolo». Tutti in paese ricorrevano a lui con fiducia. Simpatico, affabile ma, soprattutto, umano. Della sua menomazione non ne faceva un problema. Ci rideva sopra e non aveva alcun complesso nel corteggiare qualche ragazza del paese. Fino a quando, con una bella infermiera, anche se un po’ attempata e con lo stesso nome, convolò a nozze. Per l’occasione, gli amici affissero dei manifesti lungo le strade del paese con la scritta:«Peppe e Peppa oggi sposi». Dopo diversi anni mi trasferii, prima a Roma, poi a Milano, in ultimo a Mantova. Non ho saputo più nulla di Peppe «er Gobbo». In questi giorni, leggendo le polemiche alle dichiarazioni di Letizia Moratti, sulla collaborazione che gli infermieri potrebbero dare ai medici, stante la carenza di quest’ultimi, ho telefonato ai sopravvissuti amici d’infanzia e di scuola di Palestrina, per chiedere conferma di questo mio ricordo. Ebbene, ne ho avuto piena conferma. Un altro, amico di famiglia del Gobbo, mi ha risposto, esagerando un po’: «Il Gobbo ne sapeva più di un medico».
Francesco Paolo Gentile, Mantova
-
ROMA
«Passeggiata ai Parioli con mia madre anziana, che disastro»
Carola Luccarelli , Roma;
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IN SPIAGGIA
«Quella lite sui confini che si poteva evitare»»
Rino Filippin
-
ENERGIA
«Quei riflettori accesi inutilmente»
Emilio Iazzetti
INVIATECI LE VOSTRE LETTERE
Vi proponiamo di mettere in comune esperienze e riflessioni. Condividere uno spazio in cui discutere senza che sia necessario alzare la voce per essere ascoltati. Continuare ad approfondire le grandi questioni del nostro tempo, e contaminarle con la vita. Raccontare come la storia e la cronaca incidano sulla nostra quotidianità. Ditelo al Corriere.
MARTEDI – IL CURRICULUM
Pubblichiamo la lettera con cui un giovane o un lavoratore già formato presenta le proprie competenze: le lingue straniere, l’innovazione tecnologica, il gusto del lavoro ben fatto, i mestieri d’arte; parlare cinese, inventare un’app, possedere una tecnica, suonare o aggiustare il violino
MERCOLEDI – L’OFFERTA DI LAVORO
Diamo spazio a un’azienda, di qualsiasi campo, che fatica a trovare personale: interpreti, start-upper, saldatori, liutai.
GIOVEDI – L’INGIUSTIZIA
Chiediamo di raccontare un’ingiustizia subita: un caso di malasanità, un problema in banca; ma anche un ristorante in cui si è mangiato male, o un ufficio pubblico in cui si è stati trattati peggio. Sarà garantito ovviamente il diritto di replica
VENERDI -L’AMORE
Chiediamo di raccontarci una storia d’amore, o di mandare attraverso il Corriere una lettera alla persona che amate. Non la posta del cuore; una finestra aperta sulla vita.
SABATO -L’ADDIO
Vi proponiamo di fissare la memoria di una persona che per voi è stata fondamentale. Una figlia potrà raccontare un padre, un marito la moglie, un allievo il maestro. Ogni sabato scegliamo così il profilo di un italiano che ci ha lasciati. Ma li leggiamo tutti, e tutti ci arricchiranno.
DOMENICA – LA STORIA
Ospitiamo il racconto di un lettore. Una storia vera o di fantasia.
LA FOTO DEL LETTORE
Ogni giorno scegliamo un’immagine che vi ha fatto arrabbiare o vi ha emozionati. La testimonianza del degrado delle nostre città, o della loro bellezza.
Inviateci le vostre foto su Instagram all’account @corriere
, 2022-06-25 22:20:00,
DOMENICA 26 GIUGNO 2022
risponde Aldo Cazzullo
Caro Aldo,
leggo sul Corriere milanese di un detenuto che si è suicidato nel 2009; tra le criticità viene segnalato, in particolare, il sovraffollamento delle carceri. In quell’anno a San Vittorie vi erano 1.400 reclusi a fronte di 800 posti a disposizione. Ma per quale motivo lo Stato non costruisce altre carceri, visto che il problema è nazionale? Con gli oltre 33 miliardi sprecati per il bonus facciate 110%, non si potevano costruire altre carceri piuttosto che investirli anche in altre infrastrutture?
Alfredo Porro, Milano
Caro Alfredo,
In effetti da decenni si discute di come svuotare le carceri, anziché costruirne di nuove. Mi pare che sul tema si confrontino due retoriche. Quella rigorista, tipo «facciamolo marcire in prigione» e «chiudiamolo in cella e gettiamo la chiave». E quella garantista, per cui il carcere sarebbe una punizione medievale, una crudeltà insopportabile, un retaggio del passato. È evidente che nessuno deve marcire, e non ci sono chiavi che possano essere buttate. È meno evidente, invece, che il rifiuto del carcere è un altro aspetto della tipica mentalità italiana del rifiuto dello Stato, percepito come «altro» rispetto a noi se non come nemico; per cui il Palazzo di Giustizia diventa il Palazzaccio, il poliziotto lo sbirro, l’agente del fisco lo sceriffo di Nottingham. Il carcere serve fondamentalmente a tre cose. Impedire a una persona potenzialmente pericolosa di nuocere agli altri (non a caso il referendum per abolire il rischio di reiterazione del reato come motivo per la carcerazione preventiva non ha incontrato il favore popolare). Punire i reati, se possibile prevenirli con la deterrenza. E recuperare il detenuto, trasmettendogli valori, insegnandogli un lavoro, reinserendolo nella società. Le carceri italiane rischiano di fallire tutti e tre gli obiettivi, in particolare il terzo. Per il recupero dei detenuti, occorre che le carceri siano luoghi dove si possa vivere dignitosamente; questa dovrebbe essere la priorità, non «svuotare le galere», a rischio e pericolo delle potenziali vittime che stanno fuori e non hanno fatto nulla di male. Purtroppo, molte carceri italiane sono fatiscenti. Qualche tempo fa sono andato a presentare un libro a Regina Coeli: un carcere bene amministrato, dove i detenuti hanno biblioteche e laboratori; ma che senso ha una prigione nel cuore di Roma, o nel caso di San Vittore nel cuore di Milano? Gli edifici storici andrebbero valorizzati, nell’interesse della collettività, e i detenuti andrebbero recuperati in carceri moderne. Se non ci pensiamo ora, che abbiamo risorse da spendere, quando lo faremo? Sarebbero soldi investiti meglio rispetto a quelli del Superbonus, fonte di supertruffe; così come è una truffa allo Stato pure la speculazione che in poche settimane ha riportato i prezzi del carburante oltre i due euro al litro, là dove erano quando il governo ha tagliato le accise.
LE ALTRE LETTERE DI OGGI
Storia
«Così l’infermiere Peppe sposò la collega Peppa»
Si chiamava Giuseppe. Di professione faceva l’infermiere all’ospedale di Palestrina, in provincia di Roma, negli anni 50. Tutti, però, lo chiamavano Peppe il gobbo, o meglio, «er Gobbo». Non ricordo se nell’ospedale ci fosse un medico di turno; se c’era io non lo vidi mai. C’era lui però e, all’occorrenza, interveniva con alta professionalità. Lo affermo senza remore o dubbi. Infatti, per ben tre volte mi cucì le ferite (al piede, alla mano, al mento). Ero un ragazzino troppo vivace. Ricordo la raccomandazione del Gobbo a mio padre: «Lo tenga d’occhio perché suo figlio non conosce il pericolo». Tutti in paese ricorrevano a lui con fiducia. Simpatico, affabile ma, soprattutto, umano. Della sua menomazione non ne faceva un problema. Ci rideva sopra e non aveva alcun complesso nel corteggiare qualche ragazza del paese. Fino a quando, con una bella infermiera, anche se un po’ attempata e con lo stesso nome, convolò a nozze. Per l’occasione, gli amici affissero dei manifesti lungo le strade del paese con la scritta:«Peppe e Peppa oggi sposi». Dopo diversi anni mi trasferii, prima a Roma, poi a Milano, in ultimo a Mantova. Non ho saputo più nulla di Peppe «er Gobbo». In questi giorni, leggendo le polemiche alle dichiarazioni di Letizia Moratti, sulla collaborazione che gli infermieri potrebbero dare ai medici, stante la carenza di quest’ultimi, ho telefonato ai sopravvissuti amici d’infanzia e di scuola di Palestrina, per chiedere conferma di questo mio ricordo. Ebbene, ne ho avuto piena conferma. Un altro, amico di famiglia del Gobbo, mi ha risposto, esagerando un po’: «Il Gobbo ne sapeva più di un medico».
Francesco Paolo Gentile, Mantova
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ROMA
«Passeggiata ai Parioli con mia madre anziana, che disastro»
Carola Luccarelli , Roma;
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IN SPIAGGIA
«Quella lite sui confini che si poteva evitare»»
Rino Filippin
-
ENERGIA
«Quei riflettori accesi inutilmente»
Emilio Iazzetti
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Vi proponiamo di mettere in comune esperienze e riflessioni. Condividere uno spazio in cui discutere senza che sia necessario alzare la voce per essere ascoltati. Continuare ad approfondire le grandi questioni del nostro tempo, e contaminarle con la vita. Raccontare come la storia e la cronaca incidano sulla nostra quotidianità. Ditelo al Corriere.
MARTEDI – IL CURRICULUM
Pubblichiamo la lettera con cui un giovane o un lavoratore già formato presenta le proprie competenze: le lingue straniere, l’innovazione tecnologica, il gusto del lavoro ben fatto, i mestieri d’arte; parlare cinese, inventare un’app, possedere una tecnica, suonare o aggiustare il violino
MERCOLEDI – L’OFFERTA DI LAVORO
Diamo spazio a un’azienda, di qualsiasi campo, che fatica a trovare personale: interpreti, start-upper, saldatori, liutai.
GIOVEDI – L’INGIUSTIZIA
Chiediamo di raccontare un’ingiustizia subita: un caso di malasanità, un problema in banca; ma anche un ristorante in cui si è mangiato male, o un ufficio pubblico in cui si è stati trattati peggio. Sarà garantito ovviamente il diritto di replica
VENERDI -L’AMORE
Chiediamo di raccontarci una storia d’amore, o di mandare attraverso il Corriere una lettera alla persona che amate. Non la posta del cuore; una finestra aperta sulla vita.
SABATO -L’ADDIO
Vi proponiamo di fissare la memoria di una persona che per voi è stata fondamentale. Una figlia potrà raccontare un padre, un marito la moglie, un allievo il maestro. Ogni sabato scegliamo così il profilo di un italiano che ci ha lasciati. Ma li leggiamo tutti, e tutti ci arricchiranno.
DOMENICA – LA STORIA
Ospitiamo il racconto di un lettore. Una storia vera o di fantasia.
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Ogni giorno scegliamo un’immagine che vi ha fatto arrabbiare o vi ha emozionati. La testimonianza del degrado delle nostre città, o della loro bellezza.
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, Aldo Cazzullo