di Paolo Mereghetti
Il regista mostra i pugni e lo fa con rabbia e determinazione in «Il signore delle formiche»
Amelio mostra i pugni, e lo fa con rabbia e determinazione. A dargliene l’occasione è la rievocazione del «caso Braibanti», il primo processo per plagio fatto in Italia nel 1968: sul banco un professore 45enne, Aldo Braibanti, accusato di aver «ridotto in totale stato di soggezione» il 25enne Giovanni Sanfratello, per due anni suo compagno e poi rapito, letteralmente, dalla famiglia che rinchiuse lui in un ospedale psichiatrico padovano e denunciò Braibanti per «plagio», rispolverando un articolo del codice Rocco che i radicali riuscirono a far abolire solo nel 1981. Di fatto, però, l’accusa contro Braibanti era un modo ipocrita per attaccare la sua relazione omosessuale con Sanfratello, che certa opinione pubblica italiana leggeva ancora come uno scandalo imperdonabile. Questa storia Amelio la racconta in Il signore delle formiche (Braibanti era anche un apprezzato mirmecologo) prendendosi alcune libertà sui nomi — Giovanni diventa Ettore (Leonardo Maltese, candidato di rigore al premio Mastroianni per l’attore emergente), il fratello diventa Riccardo (Davide Vecchi), la madre Maddalena (Anna Caterina Antonacci) mentre Braibanti (un «pasoliniano» Luigi Lo Cascio) resta tale — ma mettendo bene in risalto i temi fondamentali.
Anzi, la prima qualità del film sta proprio nella chiarezza cristallina con cui il regista ricostruisce il caso, dove quello che gli sta a cuore viene raccontato con cartesiana lucidità. Braibanti non diventa mai un santino, i suoi eccessi caratteriali sono raccontati senza filtri. Ma la stessa efficacia, Amelio (che firma la sceneggiatura con Edoardo Petti e Federico Fava) la mette nel restituire la mentalità fintamente comprensiva del presidente della corte (Alberto Cracco) o quella decisamente reazionaria del pubblico ministero (Valerio Binasco). Senza dimenticare di stigmatizzare la prudenza codina del Pci che emerge dai contrasti che ha col suo diplomaticissimo direttore proprio il giornalista dell’Unità incaricato di seguire il caso (un perfetto Elio Germano). Quello che ne esce, allora, è un film che va oltre il «caso Braibanti» per restituire il quadro di un’Italia che non sembrava accorgersi degli anni che passavano e che vedeva ancora l’omosessualità come una malattia da cui guarire (magari con gli elettroshock che subì Giovanni/Ettore). Un ritratto culturale e generazionale che Amelio conosce bene perché lo subì anche sulla propria pelle e che il film racconta senza una sbavatura, senza cedere al ricatto della lacrima o della rabbia.
Tutto l’opposto delle confuse atmosfere di The Eternal Daughter (La figlia eterna) di Joanna Hogg che dopo le due parti di Souvenir continua a interrogarsi sui rapporti con la figura materna. Qui c’è una film-maker interpretata da Tilda Swinton che vuole scrivere un film sulla madre (anche lei interpretata dalla Swinton) in un albergo che una volta era un castello di loro proprietà, dove naturalmente i ricordi si accavallano a non finire. Finendo così per sfiancare il povero spettatore.
7 settembre 2022 (modifica il 7 settembre 2022 | 09:11)
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