Le parole di Kissinger e Johnson e la strada di un negoziato per l’Ucraina

Le parole di Kissinger e Johnson e la strada di un negoziato per l’Ucraina

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di Gianluca Mercuri

Il «più fedele alleato dell’Ucraina» e l’ex segretario di Stato Usa che Kiev aveva accusato di posizioni «filorusse» hanno indicato come obiettivo della guerra il ritorno allo status quo prima del 24 febbraio. Un negoziato può partire da qui?

Nell’intervista pubblicata dal Corriere il 22 giugno scorso, Boris Johnson ha fatto una cosa importantissima: dopo avere per tre mesi incarnato il ruolo del «più fedele alleato dell’Ucraina», più convinto anche dell’America, e aver provato a costruire un asse con Kiev, con i polacchi e i baltici al puro scopo di indebolire l’Unione europea, finalmente è uscito dall’ambiguità strategica del «devono essere gli ucraini a scegliere» — sacrosanto in sé, ma con implicazioni assai complicate — e ha fissato un obiettivo chiaro per il fronte che sostiene il Paese aggredito: «Il territorio ucraino deve essere restaurato, almeno nei confini prima del 24 febbraio, la sovranità e la sicurezza dell’Ucraina devono essere protette».

Status quo ante, dunque, con Johnson che ammette «il rischio di una stanchezza sull’Ucraina, il rischio che la gente non riesca a vedere che questa è una battaglia vitale per i nostri valori, per il mondo»: il rischio che Mario Draghi aveva segnalato chiaramente a Joe Biden già nella sua visita alla Casa Bianca in maggio.

Avvertire e denunciare questo rischio, cercare una via d’uscita dalla guerra che rispetti interessi e principi, a cominciare da quelli ucraini, indicare obiettivi che possano conciliarli il più possibile, non sono dunque più segni di cedimento e pavidità europei, ma tracce evidenti di ciò che serve: una politica seria. Quella che indica, per esempio, Jonathan Powell, un inglese che se ne intende: infatti negoziò la pace in Irlanda del Nord per conto di Tony Blair. Scriveva il 23 giugno sul Guardian: «In questo dibattito sembra che non abbiamo imparato nessuna delle lezioni della nostra storia. Si possono imporre condizioni a un Paese solo se lo si invade e lo si conquista, come fecero gli alleati in Germania nel 1945. Altrimenti, anche i “vincitori” devono negoziare, come a Versailles nel 1919. E poiché nessuno propone che l’Ucraina invada la Russia, (…) la Russia continuerà a esistere come vicino dell’Ucraina e avrà ancora forze armate molto più grandi. Ci sarà una pace duratura solo se non lasceremo la Russia a covare il suo rancore, isolata e in attesa della prossima occasione per invadere».

È esattamente quello che Emmanuel Macron ha sostenuto finora — e ora che il presidente francese è più debole è ancora più importante sottolinearlo — quando ha detto e ripetuto che «non bisogna umiliare la Russia», pensare cioè di poterla fare capitolare totalmente. Ed è esattamente quello a cui gli inglesi si erano opposti finora, fino alle sagge ancorché tardive parole di Johnson. Basti pensare che ancora a maggio, quando Draghi, Macron e Scholz si sforzavano di trovare una via d’uscita e venivano indicati da una parte della stampa anglosassone come imbelli, il ministro della Difesa di Londra Ben Wallace diceva cose così: «Con l’invasione dell’Ucraina, Putin, la sua cerchia ristretta e i suoi generali stanno rispecchiando il fascismo e la tirannia di 70 anni fa, ripetendo gli errori dei regimi totalitari del secolo scorso. Anche il loro destino deve essere, sicuramente, alla fine lo stesso».

Ora che Johnson si è convinto che conquistare e occupare la Russia e sottoporre Putin e i suoi gerarchi a un nuova Norimberga non sarà semplicissimo, si può finalmente cominciare a discutere seriamente.

Per riuscirci, il punto di partenza — non necessariamente di arrivo — è l’ultimo sondaggio dello European Council on Foreign Relations (ECFR), quello che ha segnalato la «stanchezza» ora rilevata anche da Johnson. Come spiegano i suoi autori, lo studio, «svolto in nove Stati membri dell’Ue (Finlandia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia) e in Gran Bretagna, ha rilevato un forte sostegno nei confronti dell’Ucraina; tuttavia, le preoccupazioni non sono più concentrate sugli sviluppi della guerra bensì sulle sue eventuali conseguenze, tra cui l’interruzione dei commerci, l’aumento dei prezzi dell’energia e l’inflazione. Questo dimostra che, in Europa, molti cittadini vogliono che la guerra finisca il prima possibile, anche se ciò implica perdite territoriali per l’Ucraina, e credono che sarà l’Ue, e non gli Stati Uniti o la Cina, a “subire danni” a causa del conflitto». Il sondaggio ha quindi rilevato una spaccatura tra un «campo della pace», pari al 35%, che ha come priorità la fine della guerra e non sottilizza sui modi, e un «campo della giustizia» pari al 25%, che vorrebbe invece una vittoria totale. Con un campo più numeroso, il 43%, che sceglie sia la pace che la giustizia (sconfiggere rapidissimamente la Russia). Non essendo la terza ipotesi realistica, si è teso finora a concentrarsi sulle prime due.

Campione di una «pace» all’insegna del realismo è, ancora e sempre, Henry Kissinger, che alla soglia dei 100 anni non può che convenire con sé stesso (anche) sull’Ucraina.

All’ultimo Forum di Davose in questa intervista — , l’ex segretario di Stato americano ha detto che la pace si fa barattando con Mosca le sue conquiste più recenti in cambio di quelle del 2014, cedendole cioè definitivamente la Crimea e le parti di Donbass che già controllava prima di questa guerra. Il presidente ucraino Zelensky gli ha replicato che queste proposte sembravano prese più da Monaco 1938 (l’appeasement verso Hitler) che da Davos 2022, ma è esattamente lo status quo ante che ora predica Boris Johnson, «l’alleato di ferro» di Kiev.

Campionessa per eccellenza del «campo della giustizia» è stata invece finora la grande giornalista americana Anne Applebaum. Ancora un mese fa ha scritto sull’Atlantic: «L’Occidente non deve puntare a offrire a Putin un’uscita di sicurezza; il nostro obiettivo, il nostro endgame, deve essere la sua sconfitta. In effetti, l’unica soluzione che offre qualche speranza di stabilità a lungo termine in Europa è una rapida sconfitta o addirittura, per riprendere l’espressione di Macron, l’umiliazione». Applebaum non indica concreti obiettivi militari e territoriali, ma martella sul fatto che «l’ennesimo conflitto congelato, l’ennesima situazione di stallo temporaneo, l’ennesimo compromesso per salvare la faccia non porrà fine all’aggressione russa né porterà una pace permanente».

Il punto forte di questi ragionamenti è il no al «congelamento» del conflitto e il fatto che Mosca non vuole ancora finire la guerra. Come spiega Jonathan Powell, «Putin non è ancora pronto per negoziati seri. Ma potrebbe diventarlo, a seconda dei suoi calcoli dopo la battaglia del Donbass, quindi dobbiamo essere preparati. Potrebbe dichiarare un cessate il fuoco, come ha fatto nel 2014, mantenendo il territorio conquistato. Ciò lascerebbe l’Ucraina con un altro conflitto congelato, che Putin sfrutterebbe per impedire al Paese di imboccare la strada verso un futuro europeo. Un simile cessate il fuoco sarebbe una trappola».

Come evitarla, la trappola? Continuando a combattere, ad armare l’Ucraina e allo stesso tempo perseguendo un negoziato soddisfacente.

Ovvero? Ora che lo status quo ante non è più una bestemmia nemmeno a Londra, un negoziato che obblighi Putin a restituire almeno l’ultima parte del maltolto, quella presa negli ultimi quattro mesi; e restare, noi occidentali e anzitutto noi europei, i garanti dell’Ucraina, quelli «che hanno la chiave delle sanzioni e delle garanzie di sicurezza per dissuadere la Russia dall’invadere di nuovo». Powell è illuminante anche su questo punto: «La più grande garanzia di un futuro sicuro per l’Ucraina è nelle mani dell’Ue». Con lo status di candidato e un percorso chiaro verso l’adesione, anche se lungo, «sarà molto più difficile per la Russia invadere di nuovo. Ciò darebbe anche al governo ucraino le leve e gli incentivi necessari per riformare radicalmente un sistema ancora troppo dominato da un’eredità corrotta di oligarchi e cleptocrati dell’era sovietica».

Come si vede, è esattamente la strada che gli europei hanno seguito finora. Continuando per questa strada, si capirà presto che la questione territoriale — che ora pare identificare come soluzione lo status quo ante — va inquadrata in una «torta» più ampia, che renda i compromessi accettabili a tutti. Il che richiede, per dirla ancora con Powell, «un negoziato più ampio sul futuro della sicurezza europea, che comprenda un nuovo accordo sulle forze convenzionali e un nuovo rapporto tra la Nato e la Russia». Ricordando, sottolinea questo negoziatore di professione, che «c’è sempre una tensione tra pace e giustizia quando si cerca di risolvere un conflitto». Ma è una «falsa dicotomia». E finora ha fatto il gioco di Putin.

(Una versione di questo articolo è stata pubblicata sulla Rassegna stampa del Corriere, riservata agli abbonati. Per riceverla ogni giorno via mail bisogna iscriversi alla newsletter Il Punto: lo si può fare qui)

28 giugno 2022 (modifica il 28 giugno 2022 | 18:55)

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, 2022-06-28 20:48:00, Il «più fedele alleato dell’Ucraina» e l’ex segretario di Stato Usa che Kiev aveva accusato di posizioni «filorusse» hanno indicato come obiettivo della guerra il ritorno allo status quo prima del 24 febbraio. Un negoziato può partire da qui?, Gianluca Mercuri

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