Le preoccupazioni degli studenti sono quelle di noi docenti

Le preoccupazioni degli studenti sono quelle di noi docenti

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Stiamo vivendo un periodo di intense proteste da parte degli studenti e delle studentesse delle scuole italiane, che attraverso manifestazioni, autogestioni e occupazioni stanno esprimendo un profondo disagio.
Come docenti, crediamo che assumere atteggiamenti di condanna e superiorità sia miope e semplicistico, un modo per liquidare istanze che provengono dal basso e soffocare quel senso critico che proprio nella scuola dovrebbe trovare spazio per svilupparsi. Anche perché è sufficiente leggere i comunicati e le piattaforme delle proteste per capire che ciò che preoccupa gli studenti e le studentesse è esattamente ciò che preoccupa (o dovrebbe preoccupare) anche noi.
I nodi esposti dalle proteste sono sostanzialmente tre, e toccano questioni cruciali: lavoro, crisi climatica e pandemia. La critica, in generale, è a un’idea di società dominata dallo spirito del denaro e della produzione a tutti i costi, dove i costi si quantificano in sfruttamento, disoccupazione e studenti dati in gestione ad aziende palesemente impreparate e non sicure.
Tutto questo avviene in nome di quel raccordo tra scuola e territorio tanto voluto dalla legge sulle autonomie scolastiche, che ha aperto la strada ad una gestione manageriale della scuola, con la conseguente mutazione dei propri utenti in clienti; il tutto a discapito della formazione che, incastrata in questo paradigma che la vede ridotta a mera merce di scambio, non ha potuto che modellarsi alle leggi del mercato. Trasformare l’ambiente formativo in incubatore aziendale ha fatto sì che, in poco più di vent’anni, si sia passati da un’idea di scuola come laboratorio di cambiamento sociale a quella di un’agenzia formativa al servizio del mondo del lavoro, fornendo alle aziende un nutrito bacino di reclutamento e un conseguente notevole risparmio in formazione.
A questa idea di scuola al servizio del lavoro corrisponde l’inseguimento di una crescita economica insensata che ci sta portando alla catastrofe ecologica e climatica. Gli effetti della crisi ecologica sono già sotto i nostri occhi, infatti, e comprendono anche la pandemia che ha stravolto le nostre vite, con conseguenze fisiche, sociali e psicologiche che colpiscono le persone in maniera iniqua, andando ad aggravare le disuguaglianze sociali.
Il futuro degli studenti e delle studentesse di oggi si preannuncia quindi, nel migliore dei casi, ancora più precario di quello della generazione precedente, sotto tutti i punti di vista. Ma gli studenti e le studentesse hanno intercettato questi problemi con acuta sensibilità e stanno portando avanti un’analisi lucida e mirata sul futuro e sulla società che li attende.
Di fronte a questi problemi cruciali, le istituzioni sembrano rispondere con vuoti proclami, regolamenti, incitazioni alla crescita economica, e silenzio su problemi e disuguaglianze. Tra le istituzioni sotto accusa c’è, ovviamente, anche il sistema scolastico: ci siamo anche noi docenti. E l’accusa che ci viene rivolta è, sostanzialmente, quella di fare finta di niente: di continuare con un’idea di scuola che forse andava sufficientemente bene in passato, ma che ora sembra una recita vuota, inadatta all’epoca storica che ci è toccata in sorte. Nel peggiore dei casi, l’accusa che viene rivolta alla scuola è quella di essere una macchina indifferente, un rito antico da preservare immutato nei decenni, e noi docenti quindi una casta destinata ad officiarlo, sempre identico a se stesso.
Non crediamo che queste accuse siano del tutto false, purtroppo. Possiamo pensare a mille motivi, e mille scusanti per il nostro comportamento: precariato, mancanza di finanziamenti, cattiva organizzazione, lavoro extra non considerato, eccessiva burocratizzazione, troppi impegni che sottraggono tempo alla programmazione e allo svolgimento della nostra attività principale, che è e dovrebbe rimanere la didattica in classe. Tutte queste sono condizioni che si ricollegano ai nodi da risolvere nel mondo del lavoro: se non vanno bene dobbiamo provare a cambiarle, ma non possiamo usarle come scuse.
Ecco, come docenti noi non vogliamo fare finta di niente, non vogliamo rimanere indifferenti di fronte al disagio delle persone con cui ci relazioniamo ogni giorno, un disagio che conosciamo bene perché è anche il nostro. Quindi vogliamo esprimere la nostra solidarietà agli studenti e alle studentesse che stanno protestando, e la nostra disponibilità a costruire con loro una scuola migliore, più umana, più equa, più adatta al presente. Se la scuola deve cambiare, questo cambiamento può partire soltanto da chi la scuola la vive ogni giorno: vogliamo raccogliere le loro istanze, discuterle insieme, immaginare la nuova scuola degli anni ’20.
Collettivo per la Scuola degli Anni ’20

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Pietro Guerra

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