Ha fatto bene il segretario Enrico Letta a prendere sul serio le voci sempre più critiche e gli appelli a intervenire che si levano da dentro e fuori il Pd campano nei confronti del presidente della Regione, ormai padre-padrone delle sorti politiche, organizzative ed elettorali del partito. Farebbe bene, però, e sarebbe nel suo interesse non circoscrivere il caso solo a De Luca, alla sua debordante e narcisistica personalità, o alla discutibile gestione del governo campano, come se fosse un “fungo” isolato. La dura lettera firmata da intellettuali, docenti e giornalisti di Salerno contro De Luca per l’ipotizzata legge ad personam che gli consentirebbe il terzo mandato, oltre che per «la deriva regional-sovranista, clientelare, familistica e affaristica» nel governo della Campania, trasformata ormai in una “repubblica autarchica”, segue di qualche settimana lo scontro altrettanto duro nel Pd pugliese, sia negli organi di direzione sia nel gruppo consiliare regionale, per il controllo ferreo di Emiliano sul partito (nonostante non sia iscritto), sui congressi farsa e candidati addomesticati alle segreterie, per l’esaltazione di quel falso civismo, sempre meno civico e sempre più di potere, che finisce per drenare consensi soprattutto al Pd, e soprattutto per quella linea dell’“oltrismo” che giustifica ogni operazione di ingaggio al governo e nei posti del sottogoverno di personalità del centrodestra. Non uno, ma più appelli sono stati lanciati a Letta, nei mesi scorsi, anche dalla Puglia per decidere da che parte sta. Si tratta, dunque, di un malessere diffuso. E che viene da lontano. In Campania come in Puglia e in molte altre aree del Sud.
Basti ricordare che due anni fa, fino a qualche giorno prima dell’esplosione dell’emergenza pandemica, le rielezioni di De Luca e di Emiliano erano considerate – non solo nei sondaggi – del tutto improbabili: nel febbraio 2020 nessuno avrebbe scommesso un euro sulla loro vittoria, tanto che furono messe in discussione anche le loro ricandidature (in Puglia ci fu addirittura il ricorso alle primarie per sciogliere il nodo). I mesi più duri dell’emergenza Covid, con il protagonismo delle Regioni e la forte visibilità dei presidenti, e la inevitabile domanda di continuità nella gestione della pandemia, hanno cambiato il corso elettorale e della storia meridionale. Anche grazie all’apporto del solito e sempre affollato salotto dei “sinistrati” con i nasi turati che, al momento del voto, sono capaci di perdonare alla propria parte le cose peggiori per fermare l’arrivo dei barbari, dei fascisti e delle destre, salvo poi a riaprire le narici subito dopo e a risentire la puzza sotto il naso.
Non sarà il caso, certamente, dei firmatari dell’ultima lettera contro De Luca, ma è sempre bene ricordare che quei salotti sono stati molto frequentati alla vigilia delle elezioni regionali del 2020, in Campania e, soprattutto, in Puglia dove la partita fu incerta fino all’ultimo.
Intendiamoci: se si trattasse solo di una questione interna al Pd, una lotta di potere tra uomini e cordate che si contendono il partito, o del solito e tardivo mal di pancia della sinistra politica e intellettuale, non sarebbe qui nemmeno il caso di parlare. Il punto è che la vicenda si incrocia con i destini del Mezzogiorno nei prossimi anni, con il profilo e la qualità della rappresentanza che l’elettorato meridionale sarà chiamato a scegliere alle prossime e ravvicinate Politiche, con la straordinaria opportunità – l’ennesima – che la storia sta offrendo a questa parte del Paese, in virtù dei nuovi scenari geopolitici e geoeconomici, per rientrare da protagonista nei flussi della storia dopo secoli di marginalità, chiudendo definitivamente con la stagione dello sterile e dannoso “sudismo” dell’ultimo quindicennio. È su questo, più che limitarsi a porre qualche freno alle bizze caratteriali o alle spregiudicate manovre di un De Luca o di un Emiliano, che i vertici nazionale del Pd dovrebbero riflettere e decidere. Ed è su questo che Letta potrebbe davvero svoltare rispetto al passato, compiendo ciò che nessun segretario del Pd, dalla fondazione a oggi, è stato capace di fare nel partito meridionale, al di là di spot mediatici come l’utilizzo del lanciafiamme o il ricorso a commissariamenti farlocchi, concordati con i notabili locali. Il risultato è sotto gli occhi di tutti con le condizioni disastrose in cui versa il Pd nel Mezzogiorno.
C’è un punto chiave che la lettera inviata da Salerno a Letta mette chiaramente a fuoco: «Comprendiamo bene che è arduo rinunciare alla mole di voti che il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, è capace di coagulare, tra centrosinistra e destra. Ma forse dovresti chiederti a che prezzo, quanto costano questi voti ai cittadini campani ma anche alla credibilità del Partito democratico». E, soprattutto, «come pensi di sostenere le ragioni del Sud con questa deriva regional-sovranista, clientelare, familistica e affaristica». Parole trasferibili, pari pari, come del resto è stato fatto nei mesi scorsi, alla situazione del partito e del governo pugliesi.
Ci vuole coraggio, dunque, a scegliere. E anche una buona dose di azzardo. Non è facile rinunciare al certo e puntare sull’incerto, soprattutto in politica e in tempi in cui le leadership si giudicano sui risultati immediati più che sulle scelte che producono effetti nel futuro. Eppure, se si rileggono i risultati elettorali di quattro anni fa nel Sud e si riflette su cosa è maturato dentro il Mezzogiorno e nel rapporto tra il Mezzogiorno e l’intero Paese negli anni successivi, con le nuove domande emerse dopo lo choc della pandemia e le paure provocate della guerra in Europa, Letta potrebbe trovare non poche convenienze e ad agire con coraggio e un pizzico di azzardo. E cogliere l’occasione per lanciare un’offerta politica rinnovata e convincente per quell’area territoriale che quattro anni fa uscì dalle urne colorata di giallo, con quasi tutti i collegi uninominali, sia alla Camera che al Senato, conquistati dal M5S con percentuali ovunque al di sopra del 40% e punte fino al 64%.
Quel bacino elettorale è in libera uscita e in cerca di una nuova rappresentanza, il debole collante che lo teneva insieme appare oggi liquefatto, e non solo per il crollo di credibilità del M5S. Quattro anni fa arrivò a compimento nel Mezzogiorno la confluenza – non costruita, ma nemmeno casuale – tra l’area della “sofferenza” e l’area della “insofferenza”, una sorta di variante meridionale di quella più generale rivolta contro il sistema e contro le élite che aveva scosso le società occidentali dopo la grande depressione del 2008, i costi della globalizzazione e le politiche di austerità e i vincoli di bilancio in Europa. La variante meridionale si manifestò non solo e non tanto, come altrove, nella rivolta del basso contro l’alto, degli emarginati contro gli integrati, dei poveri contro i ricchi, ma saldando nello stesso fronte territoriale sofferenti e insofferenti, ceti disperati e ceti protetti, i senza presente e senza futuro con la maggioranza del cosiddetto ceto medio riflessivo, segmenti ampi della borghesia delle professioni e di quella intellettuale. Il vero valore aggiunto al M5S, con le percentuali bulgare nel Sud, venne proprio dal ribellismo antisistema maturato nell’area della insofferenza politica e culturale delle élite meridionali, in reazione alla dozzinale e aggressiva propaganda leghista, agli “scippi” di risorse operati dal blocco a trazione settentrionale, alle delusioni accumulate con i governi di centrodestra e di centrosinistra della Seconda Repubblica, ai nuovi fallimenti delle ridimensionate politiche pubbliche per il Mezzogiorno. Quella confluenza, già prima del 2018, aveva dato diritto di cittadinanza nel Mezzogiorno a pulsioni, sentimenti, leader e capipopolo (anche di provenienza pd) che avevano colmato la crisi del vecchio meridionalismo liberale e riformista con un “sudismo” della recriminazione, del rancore e del rigetto, con forti spinte anche all’autoisolamento, pronto a “scassare” nel nome di un manipolato e strumentalizzato orgoglio territoriale, e con l’affermarsi di una corrente di pensiero a tratti persino più sovranista dei sovranisti.
È ancora così? Sicuramente no, il dispositivo è cambiato. I due anni pesanti della pandemia (che non è ancora finita), la svolta – non solo politica ma anche nello stile e nei comportamenti – impressa da Draghi nell’azione di governo, l’opportunità del Pnrr con l’ingente quantità di risorse in arrivo e, da ultimo, la guerra in Europa, con le gravi conseguenze che comporterà sulla ripresa economica hanno stravolto la gerarchia di domande, aspettative, bisogni e finanche di valori. Non che l’area della sofferenza risulti oggi prosciugata. Anzi. E le conseguenze dirette e indirette della guerra scatenata da Putin potrebbero allargarla ancora, rinfocolando le mai sopite forze populiste.
Ad esaurirsi, piuttosto, in questi anni di crisi e di grande spavento, ma anche di unità nazionale e di riscoperta dell’importanza dell’Europa, sembra la carica antisistema del ribellismo dei ceti medi meridionali e della borghesia delle professioni, la loro radicalizzazione politica e culturale rivolta principalmente contro il “centro”, la pulsione palingenetica a “scassare” a prescindere: gli anni della paura hanno fatto riemergere una forte domanda di governo e di stabilità, il valore delle competenze per affrontare la complessità, la ricerca di risposte rassicuranti e protettive di fronte a pericoli nuove e minacce mai conosciute, oltre che una voglia di sobrietà nel linguaggio e nei comportamenti (lo conferma proprio la parabola nei consensi, da un mese all’altro, delle bizzarre sortite di De Luca). È qui che si giocherà, probabilmente, la partita decisiva tra un anno nel Mezzogiorno, dal cui esito dipenderanno – forse come non mai nella storia repubblicana – le sorti della prossima legislatura. Chi saprà cogliere questa domanda, intercettare questa pulsione non più a scassare ma a ricucire, non più a cavalcare ma a governare le paure e le ansie, può trovare terreno fertile nel Mezzogiorno. E qui si torna al punto chiave della lettera inviata a Letta. Connettersi con questa domanda significa lanciare un’offerta politica sulla base (finalmente) di un’idea forza del Sud e per il Sud, alla luce dei nuovi scenari geopolitici e geoeconomici, capace di coinvolgere l’intero Paese e di spostare l’asse strategico nazionale sulla vocazione mediterranea. È questa la vera occasione per ricollocare il Mezzogiorno, dopo trent’anni e a pieno titolo, dentro il destino dell’Italia. L’alternativa, dal fiato corto, è quella di perpetuare una gestione dorotea e padronale del governo locale, alimentata da un utilizzo delle risorse solo per lubrificare gli ingranaggi delle macchine del consenso e di famelici blocchi di potere che garantiscono voti.
Farebbe bene, dunque, il segretario Letta a organizzare un giro a tutto campo nel Mezzogiorno e ascoltare le voci di dentro e fuori il partito, senza accompagnatori interessati, senza consiglieri romani e plenipotenziari nel Sud, molti dei quali hanno tutta la convenienza a lasciare le cose come stanno per ottenere candidature blindate e una sicura elezione tra un anno. Farebbe bene al Sud. Ma sarebbe anche nell’interesse suo e del suo partito.
11 marzo 2022 | 10:36
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, 2022-03-11 09:36:00, Il Pd e quel bisogno di stabilità, Photo Credit: ,
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