Luca Barbarossa: «Non arrivavo a fine mese. Un rimprovero di  Morandi mi ha fatto vincere  Sanremo»

Luca Barbarossa: «Non arrivavo a fine mese. Un rimprovero di Morandi mi ha fatto vincere Sanremo»

Spread the love

Da ragazzo quali erano le sue armi di seduzione?

«Una. È là, sul divano».

La chitarra?

«Ovvio. Vedi uno che canta e suona, gli vanno dietro le ragazze e dici: io nella vita voglio fare quello. Con il mio amico Mario ci esibivamo a piazza Navona o anche a Barcellona quando abbiamo fatto il giro d’Europa: eravamo giovani, carini, simpatici. Non stavamo per strada perché ce la passavamo male o eravamo disperati. Per noi era una lunga vacanza e con quel mestiere ci campavamo, facevamo soldi per proseguire il viaggio. Ma non sono mai stato un latin lover, gli anni Settanta erano così: ci si incontrava, ci si annusava e se ci si piaceva si faceva un tratto di strada insieme».

Ha imparato a suonare per rimorchiare?

«No, la musica mi piace punto e basta. Ne ascoltavo tanta, soprattutto americana. E volevo imparare a suonare le canzoni. Prima scherzavo. Per favore, lo dica: Barbarossa scherza spesso. Quando le persone leggono non sentono l’intonazione della voce, non ti vedono ridere. Come distinguono le battute? Me lo sono chiesto mentre scrivevo il mio libro. E ho capito l’importanza delle emoticon». Luca Barbarossa, cantautore e conduttore radiofonico, ha intitolato il suo esordio letterario Non perderti niente e lo ha pubblicato nel 2021, per i sessant’anni. Ora lo porta in tour, mischiando ricordi e canzoni. «Non è un’autobiografia perché non sono né Napoleone né Frank Sinatra. È concentrato sulla mia adolescenza, tipo romanzo di formazione».

Una storia che le piace condividere?

«Io, Venditti e il Banco del Mutuo Soccorso eravamo a suonare al Pincio, in una serata organizzata dal Pci. A un certo punto Benigni prese in braccio Berlinguer. Il gesto sorprese, divertì e intenerì. Quella è una stagione che merita di essere raccontata. Diamo tutto per scontato, ma i ragazzi non guardano i tg, non leggono i quotidiani. Pensano ad altro. Siamo noi genitori a dover fare un piccolo sforzo in più, a parlare di quello che non hanno vissuto».

Ha tre figli. Che padre è?

«Avere un papà che sta in radio o in tv per i miei ragazzi deve essere una bella rottura… È un mio cruccio. A casa cerco di non parlare di me e di dare più importanza a loro. Assecondo le passioni ma senza viziarli. Valerio, il maggiore, ama il surf, così invece di frequentare l’università a Roma l’ha fatta in Portogallo, davanti all’oceano. A Flavio piace suonare, è bravissimo. Studia musica, non è come me che sono autodidatta. Margot ha 12 anni e tanti interessi. Sono bravi, seri, hanno voglia di fare non appartengono alla generazione degli Sdraiati di Michele Serra».

Una delle sue passioni è il tennis. È bravo?

«Ho iniziato negli anni d’oro di questo sport in Italia. Avevo la stessa insegnante di Panatta. Ma per diventare professionista ci vogliono doti un po’ più spiccate delle mie. Poi mi sono trasferito in campagna e la musica ha preso il sopravvento».

Che adolescente era?

«Difficilotto. Un ribelle che scappava da casa e non tornava per settimane, mesi. Sparivo, me ne andavo in Inghilterra, in America».

Organizzava anche un cineforum nella sezione del partito a Mentana, dove viveva.

«Ci credevo. Se guardo indietro, con tenerezza, mi sembro matto. I miei coetanei andavano in discoteca e rimorchiavano, io proiettavo film. Quell’attivismo politico è un po’ il volontariato di oggi che ammiro: ripulire boschi e spiagge, assistere chi ne ha bisogno».

Cosa è rimasto di quel ragazzo?

«Moltissimo. Non eravamo comunisti perché credevamo nei gulag o in Stalin. Eravamo comunisti perché sennò eri colluso con Andreotti, la mafia, le stragi di Stato. Diceva Gaber: “Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggiore partito socialista d’Europa… perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica”. Non ci stavo a quello scempio. Dal Pci sono passato a una sinistra piu socialdemocratica. Ma la verità, come canta De Gregori, è che sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai. A me stanno a cuore istanze che l’altra parte vive come incubi: diritto all’aborto, ius soli, ddl Zan. Comunisti si rimane tutta la vita, anche se il sogno si è infranto per chi ha avuto l’onestà di ammetterlo e di documentarsi».

Ha conosciuto Giorgio Gaber?

«Sì, è stato un privilegio. Da ragazzino andavo ai suoi spettacoli. Negli anni 90 sono diventato amico di sua figlia Dalia e mi è capitato di frequentare casa loro a Milano, in Versilia. Ricordo una sera, andammo prima in teatro da Giorgio, poi ci aspettava Ornella Vanoni a cena. C’era anche mia madre Annamaria, una barricadera. Erano gli anni in cui Berlusconi era il male assoluto. Sentire Gaber, disincantato, che non faceva sconti a nessuno, ci colpì. Poi, in camerino, con la bellissima faccia appesa, l’asciugamano intorno al collo, ci chiese: “Un po’ qualunquista?”. Sembrava un bambino che ha fatto una marachella e si aspetta il rimprovero. La sua enorme onestà intellettuale gli imponeva di mettere in gioco se stesso e le sue convinzioni».

Quante volte è stato a Sanremo?

«Nove. Potrò mai essere perdonato?».

Ci vorrebbe una emoticon con la faccina che ride.

«All’Ariston si presentano canzoni inedite. Ed è un merito del Festival. Non è che non abbia difetti però la possibilità te la dà. Passame er sale, che ho cantato nel 2018, è una ballata dialettale romana che nessuna radio trasmetterà mai se non qualche emittente che tifa Roma. Oggi si possono fare dei percorsi alternativi. Ma negli anni 80, quando ho cominciato io, al sistema e ai discografici mancava la fantasia. Sanremo era un po’ il talent dell’epoca: o la va o la spacca».

Il Festival lo ha vinto nel ’92 con «Portami a ballare».

«Ma io volevo cantare Cuore d’acciaio, più impegnato. Furono Morandi e Dalla a dirmi: ”Devi toglierti la puzza sotto al naso”».

La sua prima volta nell’81 con «Roma spogliata». Gliel’ha mai detto a Venditti che era l’anti «Roma capoccia»?

«No. Ho vissuto gli anni di piombo, ho visto persone morire durante le manifestazioni, lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, sulla schiena dei miei amici. Io li ho schivati per un pelo. La città era fuoco e fiamme. Antonello, invece, parlava di Roma come in un sonetto dell’800: il cupolone, la santità, la maestà, la carrozzella. Ho capito dopo che quella canzone andava oltre la Storia, era una dichiarazione d’amore. Pensavo che Venditti, ascoltando Roma spogliata, avrebbe stanato la mia rabbia. Invece è entrato in studio mentre la incidevo. Ha detto: “Bella, posso suonare il pianoforte?”. Io, un verme, in un attimo ero diventato un suo grande fan».

Dopo quel successo la crisi. Perché?

«Per azzeccare una seconda canzone, Via Margutta, passarono 5 anni. Nel frattempo, con la mia chitarra e un sacco a pelo, ero entrato in questa casa e dovevo pagare l’affitto: 365 mila lire al mese. All’inizio tutto ok. Poi ho cominciato ad avere problemi con la mia casa discografica, la Fonit Cetra, il mio primo album non era andato bene, non avevo continuità…».

Come viveva?

«Sono stati anni difficili, mi sono rimesso a suonare nei locali, avevo quel briciolo di nome che mi permetteva di non fare piano bar. Non arrivavo a fine mese. Per farmi abbassare l’affitto ho ridato indietro una stanza alla proprietaria dell’appartamento».

Come si è ripreso?

«L’angoscia di rimanere senza soldi l’ho sempre avuta, forse come tutti quelli che sono andati presto via di casa. Quest’ansia mi ha spinto a cercare una strada per venirne fuori. La svolta arrivò con L’amore rubato».

Nell’88, di nuovo a Sanremo. Raccontava di una violenza sessuale. Scatenò l’ira delle femministe e non solo.

«Mi accusarono di sfruttare un dramma delle donne per soldi. Ero schiacciato dalle polemiche. Per fortuna non tutti la pensavano così. Conservo il telegramma che mi inviarono Dario Fo e Franca Rame nella serata finale. Dicevano che attraverso la denuncia di un uomo passa la questione femminile. Mi diedero forza».

Così riuscì a scrollarsi di dosso l’immagine del ragazzo della porta accanto?

«Non ce l’ho con i bravi ragazzi, ma con la banalizzazione. Quando fai un mestiere pubblico ti affibbiano un’etichetta alla quale devi corrispondere. All’epoca me la vivevo male: volevo essere Bob Dylan e pretendevano di farmi diventare Miguel Bosé».

Non si è mai arreso?

«Mi trovavo a mio agio fra le difficoltà. La fatica quotidiana di scrivere canzoni più belle di quelle che avevo già composto mi era più congeniale dell’essere l’idolo delle folle. Della serie: stai nella giostra come un criceto e fai girare la ruota. La nostra è una vita da artigiani, se non stai attento chiudi bottega. Il successo è solo un incidente di percorso».

Si è reinventato con Radio2 Social Club. Quale artista è stato il più sorprendente?

«Lucio Dalla. In realtà ci conoscevamo già bene. In radio si viene gratis. Lucio era un gigante. Il manager avrebbe potuto dire: “Canta un solo pezzo e lo paghi”. Invece Lucio si è seduto, la sigaretta accesa, ha chiesto: “Cosa volete che canti, Caruso?”. Eravamo increduli. Tornò spesso. Non faceva questo mestiere per soldi, ma perché gli dava gioia. Era un jazzista. Un musicista ha istinto, passione e se la tira meno di tanti altri».

De Gregori, invece, non voleva venire.

«Dice che l’ho fatto diventare buono con il Social Club. All’inizio mi ha detto di no. Poi ha iniziato ad ascoltarci e mi ha chiesto di partecipare. Alla fine era diventato di casa. Un 8 dicembre eravamo io, lui, Giorgio Faletti e un rumorista che imitava il suono delle palline che si rompono mentre fai l’albero di Natale. Una puntata da ricordare».

, 2022-08-08 05:29:00, Il cantautore romano, che con «Portami a ballare» ha vinto il Festival di Sanremo nel 1992:« Portai a cena mia madre Annamaria con Giorgio Gaber e Ornella Vanoni», Sandra Cesarale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.