di ALDO CAZZULLO
«Il filo dell’aquilone. Vita di Astorre Cantacci» (Mondadori) prende spunto da un eccidio nazista di monaci
Il monastero nascondeva più di un centinaio di ricercati dai nazifascisti: ebrei, perseguitati politici, partigiani, antifascisti di vario genere, ex fascisti bollati come traditori dai repubblichini di Salò, giovani che tentavano di sottrarsi alla leva, sfollati dalle città vicine, meridionali rimasti isolati dall’avanzata del fronte. Si pensava così di proteggerli, tanto che su ogni ingresso della certosa era appeso un cartello con scritto Karthaueser Kloster – Neutrale Zone (monastero certosino – zona neutrale). Ma a nulla valsero quei cartelli contro la furia della XVI SS Panzergrenadier Division Reichsführer. La stessa responsabile delle stragi di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema. Persero la vita sei monaci sacerdoti e sei monaci fratelli, deportati insieme ad altri ventidue monaci, poi sopravvissuti, e a trentadue civili catturati e poi uccisi anch’essi. Tutti accusati di resistenza all’occupante tedesco». Paolo Del Debbio è un antifascista di centrodestra, figura rara in Italia (ancora si ricorda lo sfogo in tv: «Io sono figlio di un deportato e sul fascismo non dovete rompermi i coglioni!»). Ed è un intellettuale che sa parlare alla gente, figura ancora più rara (la sua trasmissione su Retequattro, Dritto e rovescio, è molto seguita dai ceti popolari). Dopo aver scritto libri di filosofia, e dopo aver raccontato ne Le 10 cose che ho imparato dalla vita la storia del padre internato militare in Germania — l’altra Resistenza dei prigionieri di guerra che rifiutarono di combattere per Hitler e a decine di migliaia morirono di stenti — ora affronta nel suo primo romanzo Il filo dell’aquilone (Mondadori) una vicenda che ha segnato la sua città: la strage della certosa di Lucca.
Una pagina nobilissima oggi del tutto assente nella memoria nazionale: il martirio di una comunità di religiosi che alla fine dell’estate del 1944 affrontano la tortura, la deportazione, la morte per una scelta non politica ma umana, rischiare la vita per salvare perseguitati senza colpa. Come spiega al protagonista il padre Maestro, «la compassione fu l’unico vero motivo alla base di ciò che fecero e subirono i padri e i fratelli certosini uccisi. La compassione, caro Astorre, è quel sentimento che unisce la nostra umanità a quella degli altri, che ci fa sentire sulla nostra pelle quello che succede sulla pelle degli altri. E se Dio qualcosa aggiunge a tutto ciò è che sentendoci amati da lui proviamo maggiore amore per gli altri. Quei monaci non si chiusero entro le mura, in un rispetto legalistico della Regola, insensibili all’umanità sfregiata e vilipesa che bussava al portone. Viviamo nascosti in Dio, ma un Dio che si è fatto carne. Non potevano quei monaci non rispondere all’appello di quella stessa carne oltraggiata».
Tuttavia sarebbe riduttivo leggere Il filo dell’aquilone solo alla luce della strage nella certosa. Quel racconto arriva sapientemente verso la fine del romanzo, a illuminare con la luce del martirio la comunità dei certosini fin lì descritta nella sua quotidianità preziosa, intessuta di preghiere in latino e di «spaziamenti», come si chiamano le passeggiate. Il protagonista (dietro cui forse non è impossibile vedere tratti autobiografici dell’autore, che ha studiato in seminario) ha due nomi. Abbandonato infante in un convento di suore dolcissime, viene chiamato dall’impiegato dell’anagrafe (a sua volta un trovatello) Mario Casa, acronimo di Cum Amplexo Sine Amore; ma diventa Astorre Cantacci quando viene adottato dalla sua nuova famiglia, mamma cattolica, padre seguace del socialismo umanitario.
Astorre cresce circondato dall’amore ma un’ombra vela la sua esistenza. Leggere il romanzo è come entrare in una grande casa piena di piccole stanze: ognuna custodisce una storia, e si passa da una stanza all’altra in modo del tutto imprevedibile. La morte crudele del migliore amico, l’innamoramento sterile per una ragazza meravigliosa — accadrà qualcosa del genere, come in una vita parallela, a un tanguero divento certosino —, la vocazione, la scoperta delle tracce del dolore che il monastero racchiude, dalla stupenda storia d’amore tra due giovani scienziati tedeschi coinvolti loro malgrado nell’invenzione dell’iprite e dello Zyklon B, alla memoria della strage nazista. Poiché, come dice ad Astorre il padre Maestro, «noi siamo fuori dal mondo ma viviamo nel cuore del mondo. In modo misterioso, impercettibile, ma ugualmente reale». E misterioso sarà il cammino fino all’agnizione conclusiva, di cui ovviamente non diremo.
Al centro del libro c’è la riflessione sul Male, e sulla libertà dell’uomo. Un tema su cui la cristianità riflette da secoli. La conclusione cui arriva Astorre ricorda l’immagine di Dante nel Purgatorio, quando Dio si china compiaciuto su ogni anima che crea, per affidarle come un bacio il soffio vitale e affidarsi alla sua assoluta libertà; compresa la libertà di compiere il Male. Da qui il titolo del libro: l’aquilone vola non perché è abbandonato a sé stesso, ma perché il bambino lo ancora a terra legandolo alla propria mano. E ora sarebbe da raccontare la disputa sulla predeterminazione e sulla libertà tra il domenicano Domingo Báñez e il gesuita Luis de Molina, che negli ultimi anni del Cinquecento divennero in tempi diversi l’inquisitore l’uno dell’altro; ma ci vorrebbe un altro romanzo.
28 settembre 2022 (modifica il 28 settembre 2022 | 20:55)
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, 2022-09-28 18:56:00, «Il filo dell’aquilone. Vita di Astorre Cantacci» (Mondadori) prende spunto da un eccidio nazista di monaci, ALDO CAZZULLO