Ma l’Italia è sempre stato un Paese  di destra?

Ma l’Italia è sempre stato un Paese  di destra?

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di Antonio Carioti

Dal ruolo-chiave della Dc nel dopoguerra fino alla vittoria di Giorgia Meloni. La storica Simona Colarizi: «Berlusconi fece emergere un’area anticomunista-non movimentista, che dal 1948 in poi aveva votato per la Democrazia cristiana»

Il successo di Fratelli d’Italia non stupisce più di tanto. Sono circa trent’anni che il fronte conservatore prevale alle elezioni. Ha perso solo nel 1996, quando era diviso perché la Lega andò al voto da sola. E ha sostanzialmente pareggiato quando, come nel 2006, partiva da condizioni di obiettivo svantaggio. Dobbiamo concludere con Vittorio Sgarbi che l’Italia è un Paese strutturalmente di destra? Ne abbiamo parlato con la storica Simona Colarizi a partire dalla nascita della «seconda Repubblica» di cui parla il suo libro Passatopresente (Laterza), dedicato agli anni dal 198 9 al 1994.

Si può dire che, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, emerge che tra gli elettori l’anticomunismo prevale sull’antifascismo?

«Sì, il 1994 è una data periodizzante, che segna la fine dell’arco costituzionale da cui i neofascisti erano esclusi. Direi però che il primo segnale si era visto già nel 1993, quando Gianfranco Fini, allora segretario del Movimento sociale, si candida a sindaco di Roma e giunge al ballottaggio. In quel momento Berlusconi si schiera a suo favore in vista del secondo turno. Così diventa per la sinistra il “Cavaliere nero”, ma pone le basi della coalizione che risulterà vincente l’anno dopo. È il famoso sdoganamento della destra, che fino a quel momento era rimasta isolata. Un’operazione non facile, perché all’epoca la Lega di Umberto Bossi ha ancora un orientamento antifascista, che poi metterà da parte. E che scomparirà del tutto con Matteo Salvini».

Quello che accade nel 1994 dimostra che c’era in Italia una destra sommersa, che Berlusconi ha portato a galla?

«Bisogna intendersi su che cos’è la destra. Il Msi è sempre stato una forza minore, che al massimo del suo sviluppo nel 1972 raccolse circa il 9 per cento dei voti, soprattutto nel Sud. Anche nel 1992, dopo la caduta del Muro, la sua polemica antipartitocratica non fa grande presa sull’elettorato. In fondo aveva una base di consenso fortemente anticomunista e la fine dell’impero sovietico sembra togliergli un’arma».

Però il Msi non è l’unica destra.

«Infatti Berlusconi fa emergere un’altra destra, quella conservatrice, cattolica, anticomunista ma non movimentista, che dal 1948 in poi aveva votato per la Democrazia cristiana. È quella stessa destra borghese, forte soprattutto nel ceto medio, su cui il regime fascista aveva basato la sua egemonia negli anni del consenso, la destra che aveva dato alla monarchia oltre dieci milioni di voti nel referendum istituzionale del 1946.

Invece nel Msi confluiscono gli irriducibili nostalgici del Duce e della repubblica di Salò, guidati da Giorgio Almirante, nonostante il divieto costituzionale, sempre aggirato e mai applicato, di ricostituire un partito fascista».

Alcide De Gasperi, quando escluse le sinistre dal governo nel 1947, guardava alla destra conservatrice?

«Il leader democristiano capì molto bene il sentimento diffuso di un Paese che usciva dal ventennio fascista e non aveva mai conosciuto la democrazia. De Gasperi negli Anni 30 aveva vissuto in Italia, e non in esilio come molti altri antifascisti. E sapeva che la dittatura aveva sviluppato un progetto totalitario, sia pure parzialmente incompiuto, e aveva per molti versi fascistizzato la società. Con grande coraggio nel 1946 schierò la Dc a favore della repubblica nel referendum sulla forma di Stato. Ma poi impugnò la bandiera dell’anticomunismo, in sintonia con la Chiesa di Pio XII, e colse così una grande vittoria alle elezioni del 1948».

Quindi la Dc s’intestò la maggior parte dell’eredità fascista?

«La base elettorale democristiana veniva in gran parte dalla stessa Italia che aveva sostenuto il fascismo negli anni del regime. Anche perché la dittatura, nonostante alcuni contrasti anche gravi, aveva trovato un puntello importante nella Chiesa cattolica, che poi divenne la garante dell’unità politica dei cattolici nella Dc».

Uno strano partito, la Dc: prendeva voti di destra, ma sul piano politico apriva a sinistra.

«Io direi piuttosto che la Dc dimostra una grande e positiva capacità di mediazione. Credo che non solo De Gasperi, fondatore della nostra democrazia, ma tutto il ceto dirigente democristiano vada rivalutato. Più che aprire a sinistra, la Dc fa una politica di consolidamento democratico delle istituzioni, per rimediare alla fragilità di un sistema in cui il maggiore partito comunista d’Europa convive con una destra neofascista non irrilevante. Inoltre la Dc si fa garante presso gli Stati Uniti della piena adesione del Paese alla scelta atlantica. Il suo problema è reggere mentre la società si va modernizzando e secolarizzando, con la Chiesa in crescente difficoltà».

Colpisce tra l’altro che, almeno al Nord, l’unità politica dei cattolici intorno alla Dc venga spezzata dalla Lega, cioè a destra.

«Sì, le roccaforti bianche della Dc cedono a partire dagli Anni 80 sotto la spinta della Lega. Un partito anti-meridionale e anti-emigrazione, che però nella sua prima incarnazione, sotto la guida di Bossi, è anche europeista, nel senso che rivendica la secessione della Padania in nome del liberismo e della necessità di tenere il passo dei Paesi nordici. In quel periodo c’è una piccola imprenditoria che crede nella globalizzazione e investe sulla Lega, perché teme che i partiti tradizionali siano troppo corrotti e clientelari per riuscire a portare l’Italia nell’euro».

Eppure, nonostante l’elettorato italiano appaia orientato prevalentemente in senso conservatore, il mondo della cultura sembra al contrario guardare in maggioranza a sinistra.

«È una frattura antica. Nell’immediato dopoguerra la cultura dominante è ancora liberal-democratica. La stessa Costituente si orienta in quel senso, sia pure con una forte apertura alla socialità. Come del resto in tutta Europa, vengono poste le basi di una sorta di capitalismo laburista. La cultura liberal-democratica però non ha un partito forte a cui fare riferimento. E qui s’inserisce l’iniziativa del Pci di Palmiro Togliatti, che investe tantissimo nella conquista degli intellettuali attraverso il richiamo antifascista. Per esempio gli ex azionisti (Partito d’Azione ndr) vengono in gran parte assorbiti dal Pci o ne diventano fiancheggiatori. L’antifascismo è il grimaldello usato dai comunisti per conquistare la cultura alta e costruire un’egemonia intellettuale, nell’università, nei giornali, nel cosiddetto ceto medio riflessivo. Un’egemonia che continua fino ad oggi, sia pure nelle vesti rinnovate del politicamente corretto. Basta vedere quanto è forte tuttora l’antiamericanismo».

Berlusconi è stato il grande federatore delle destre italiane, ma anche ora che Forza Italia è in netto declino, l’elettorato continua a premiare il polo conservatore.

«È così. Permane la prevalenza della destra ed anzi si è acuita nei suoi connotati politici con il successo di FdI. Credo però che il risultato elettorale non si spieghi solo con la situazione italiana: bisogna guardare al contesto internazionale. La rivoluzione tecnologica e il cambiamento degli equilibri geopolitici creano paure che le destre interpretano meglio, mentre la sinistra è afona.

Le situazioni sono diverse, ma in ogni Paese c’è un richiamo alle tradizioni novecentesche, al passato autoritario. In Italia, anche se il fascismo storico è morto, ci si appella a un presidenzialismo decisionista, al bisogno dell’uomo forte. Vox in Spagna ha un retroterra franchista, Marine Le Pen ha dietro Vichy e la Francia profonda vandeana, l’estrema destra svedese ha matrici naziste».

In Italia c’è il rischio di una svolta autoritaria?

«Non direi, perché credo nell’Europa e nei suoi anticorpi rispetto a un pericolo del genere. Spero che il vincolo europeo e quello atlantico, che in fondo si sovrappongono, possano garantire la tenuta della democrazia. Più che il 26 per cento della destra mi preoccupa il 36 per cento degli elettori che non è andato a votare. Una disaffezione così vasta indebolisce le istituzioni».

Un parere sulla figura di Giorgia Meloni?

«È un volto giovane, inaugura la terza generazione del mondo di origine missina, dopo quella dei fondatori e quella successiva a cui appartiene il presidente del Senato Ignazio La Russa, che è ancora neofascista. Meloni nasce con Fini, quando Alleanza nazionale dismette le vesti del neofascismo, e ha dimostrato di avere delle notevoli qualità, quelle necessarie per farsi strada in un mondo maschilista, in fondo spregiatore delle donne. Mi pare che abbia una passione sincera per la politica, che creda in quello che fa».

Promossa su tutta la linea?

«Aspettiamola alla prova del governo. Bisogna capire se abbia la cultura per rendersi conto dei problemi posti della globalizzazione. Mi pare sinceramente atlantista, ma ho dei dubbi circa la sua posizione sull’Europa. Inoltre bisognerà vedere come riuscirà a muoversi con due partner difficili quali Salvini e Berlusconi, che dispongono di un rilevante potere di coalizione».

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31 ottobre 2022 (modifica il 31 ottobre 2022 | 08:33)

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, 2022-10-31 07:33:00, Dal ruolo-chiave della Dc nel dopoguerra fino alla vittoria di Giorgia Meloni. La storica Simona Colarizi: «Berlusconi fece emergere un’area anticomunista-non movimentista, che dal 1948 in poi aveva votato per la Democrazia cristiana», Antonio Carioti

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