Mezzogiorno, 13 settembre 2022 – 09:31 di Massimiliano Virgilio Cosa succede in una città dove governa l’università? O, per essere più chiari, quando i referenti amministrativi e politici di una metropoli come Napoli finiscono per essere colti tutti o quasi dal bacino dell’accademia? Se l’è chiesto domenica scorsa su questo giornale Goffredo Fofi, infilando il dito nella piaga di una delle grandi questioni del nostro presente. Tirare in ballo il «legame accademia/politica sempre più forte» in città come la nostra, partendo dal presupposto che l’università oggi è diventata «centro di potere tra i più forti e ramificati della società italiana di oggi, e molto probabilmente di quella napoletana» corrisponde al vero. Quanto è importante tutto ciò per Napoli? Quali le implicazioni in un governo della città dove a prendere quotidianamente scelte fondamentali per la comunità ci pensano, senza finora chissà quale risultato, gli accademici al potere? Al di là degli aspetti più oscuri che Fofi tira in ballo nel suo commento e che andrebbero indagati a fondo – in particolare sul rapporto tra massoneria, accademia e politica nel nostro Paese – sono almeno tre le conseguenze a mio avviso negative che il «governo dell’università» sta avendo sulla città dopo un anno e oltre dalla sua affermazione elettorale. Innanzitutto, l’idea che in questi mesi si è andata affermando, tramite la nomina senza soluzione di continuità di accademici in ruoli chiave dell’amministrazione (si pensi di recente alla nuova assessora all’istruzione, la pedagogista Maura Striano, o ai consiglieri alla cultura del sindaco e a quelli per il risparmio energetico) esprime una concezione del sapere novecentesca ormai superata. Secondo tale visione l’università sarebbe il luogo esclusivo dove formare competenze e capacità, idea fortemente in contrasto con la moltiplicazioni dei centri e delle agenzie formative in grado di agire formalmente e informalmente sulla costruzione dei saperi. È probabile, in ogni caso, che la mia considerazione sia viziata da un eccesso di benevolenza, attribuendo all’accademia di governo addirittura una visione del mondo, quando forse si tratta esclusivamente di un gruppo di potere incaricato di tutelare gli interessi delle élite che dominano la città da sempre. La cartina di tornasole di questo ragionamento è data dalla seconda implicazione negativa del «governo dell’università» nella nostra città. Cioè il fatto che dal punto di vista gestionale, per non parlare della formazione che sono in grado di esprimere (certificata da ogni indagine nazionale ed extranazionale di rilievo) le nostre università sono un colabrodo di fatto, incapaci di amministrare e auto-riformare se stesse, figurarsi quando i suoi uomini e donne hanno il compito di governare enti locali complicati e storicamente difficili come Napoli. In ultimo, agli accademici investiti di ruoli amministrativi in città (con le dovute eccezioni, per carità), andrebbe ricordato che non ricevere compensi per il loro ruolo e che, anzi, spesso tale impegno venga sbandierato tramite il vessillo della gratuità in realtà non costituisce un valore aggiunto. Sono cresciuto all’ombra di considerazioni molto meno alto-borghesi, secondo cui un lavoro che non è necessario pagare allora non è un lavoro ben fatto. E nel tempo ho appreso che nulla è gratis, figurarsi quando si occupano ruoli onorifici che impattano sulle scelte di un’amministrazione e di conseguenza su un’intera comunità. Non è sufficiente il titolo di accademico per non vivere conflitti di interesse o per essere potenzialmente ostaggio di interessi invisibili e molto vischiosi. A maggior ragione, come ha scritto Fofi, dopo «l’ondata oscena di privatizzazioni» di cui sono state oggetto negli ultimi decenni le nostre università, vero e proprio Cavallo di Troia dei gruppi di potere in ambito scientifico e nel sistema delle professioni. 13 settembre 2022 | 09:31 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-13 07:32:00, Mezzogiorno, 13 settembre 2022 – 09:31 di Massimiliano Virgilio Cosa succede in una città dove governa l’università? O, per essere più chiari, quando i referenti amministrativi e politici di una metropoli come Napoli finiscono per essere colti tutti o quasi dal bacino dell’accademia? Se l’è chiesto domenica scorsa su questo giornale Goffredo Fofi, infilando il dito nella piaga di una delle grandi questioni del nostro presente. Tirare in ballo il «legame accademia/politica sempre più forte» in città come la nostra, partendo dal presupposto che l’università oggi è diventata «centro di potere tra i più forti e ramificati della società italiana di oggi, e molto probabilmente di quella napoletana» corrisponde al vero. Quanto è importante tutto ciò per Napoli? Quali le implicazioni in un governo della città dove a prendere quotidianamente scelte fondamentali per la comunità ci pensano, senza finora chissà quale risultato, gli accademici al potere? Al di là degli aspetti più oscuri che Fofi tira in ballo nel suo commento e che andrebbero indagati a fondo – in particolare sul rapporto tra massoneria, accademia e politica nel nostro Paese – sono almeno tre le conseguenze a mio avviso negative che il «governo dell’università» sta avendo sulla città dopo un anno e oltre dalla sua affermazione elettorale. Innanzitutto, l’idea che in questi mesi si è andata affermando, tramite la nomina senza soluzione di continuità di accademici in ruoli chiave dell’amministrazione (si pensi di recente alla nuova assessora all’istruzione, la pedagogista Maura Striano, o ai consiglieri alla cultura del sindaco e a quelli per il risparmio energetico) esprime una concezione del sapere novecentesca ormai superata. Secondo tale visione l’università sarebbe il luogo esclusivo dove formare competenze e capacità, idea fortemente in contrasto con la moltiplicazioni dei centri e delle agenzie formative in grado di agire formalmente e informalmente sulla costruzione dei saperi. È probabile, in ogni caso, che la mia considerazione sia viziata da un eccesso di benevolenza, attribuendo all’accademia di governo addirittura una visione del mondo, quando forse si tratta esclusivamente di un gruppo di potere incaricato di tutelare gli interessi delle élite che dominano la città da sempre. La cartina di tornasole di questo ragionamento è data dalla seconda implicazione negativa del «governo dell’università» nella nostra città. Cioè il fatto che dal punto di vista gestionale, per non parlare della formazione che sono in grado di esprimere (certificata da ogni indagine nazionale ed extranazionale di rilievo) le nostre università sono un colabrodo di fatto, incapaci di amministrare e auto-riformare se stesse, figurarsi quando i suoi uomini e donne hanno il compito di governare enti locali complicati e storicamente difficili come Napoli. In ultimo, agli accademici investiti di ruoli amministrativi in città (con le dovute eccezioni, per carità), andrebbe ricordato che non ricevere compensi per il loro ruolo e che, anzi, spesso tale impegno venga sbandierato tramite il vessillo della gratuità in realtà non costituisce un valore aggiunto. Sono cresciuto all’ombra di considerazioni molto meno alto-borghesi, secondo cui un lavoro che non è necessario pagare allora non è un lavoro ben fatto. E nel tempo ho appreso che nulla è gratis, figurarsi quando si occupano ruoli onorifici che impattano sulle scelte di un’amministrazione e di conseguenza su un’intera comunità. Non è sufficiente il titolo di accademico per non vivere conflitti di interesse o per essere potenzialmente ostaggio di interessi invisibili e molto vischiosi. A maggior ragione, come ha scritto Fofi, dopo «l’ondata oscena di privatizzazioni» di cui sono state oggetto negli ultimi decenni le nostre università, vero e proprio Cavallo di Troia dei gruppi di potere in ambito scientifico e nel sistema delle professioni. 13 settembre 2022 | 09:31 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,