di Jonathan Bazzi
Sessant’anni fa moriva la diva. Da bambina non vista e non amata seppe trasformarsi nell’oggetto inesauribile del desiderio e assunse su di sé, fino a condurla al punto di rottura, la questione del rapporto fra noi stessi e gli altri. Avremmo potuto salvarla?
Marilyn ovvero Norma Jeane Baker: la bambina non vista, non amata, sessualmente abusata a nove anni, figlia di una donna affetta da schizofrenia incapace di badare a lei, rimbalzata da una casa-famiglia all’altra, da una coppia affidataria all’altra, si trasforma nell’oggetto inesauribile del desiderio. Diva delle dive, ossessione collettiva, sogno che non smettiamo di sognare. Ha qualcosa di inspiegabile, fuori misura, la trasformazione di Norma Jeane in Marilyn Monroe, ma parlare di miti e icone significa chiamare in causa proprio questo surplus, salto tra i regni e le categorie dell’esistente. Già in vita e ancor di più con la morte Marilyn diventa un ultracorpo, presenza che vibra al di là di sé stessa ed esonda, prende dimora nell’immaginario collettivo. Questo superamento ha forse a che fare con le contraddizioni interne del personaggio/persona. Rifiutata da tutti e poi da tutti voluta, innocua e onnipotente, a disposizione eppure inafferrabile, leggerissima e disperata: le leggende sono ipnotici fermagli che tengono fermo giusto qualcosa in mezzo a una nebulosa di sensazioni e reazioni esterne, per accrescerne il fulgore, il ricordo, rinnovarne il prodigio.
IL 5 AGOSTO 1962 MORIVA A BRENTWOOD (LOS ANGELES) NORMA JEANE BAKER, IN ARTE MARILYN MONROE. IL SUO BISOGNO DI ESSERE GUARDATA L’HA RESA LA PIÙ BRAVA A FARSI SOGNARE. «DA PICCOLA NESSUNO MI DICEVA CHE ERO CARINA, BISOGNEREBBE DIRLO A TUTTE»
I commenti delle persone che l’hanno conosciuta – attori, attrici, amanti, fotografi, registi – risultano del tutto privi di mezze misure: genio della recitazione o incapace assoluta, improvvisata o stacanovista, mente prismatica o debilitata, donna fragilissima o calcolatrice implacabile, forza della natura. C’è chi pensa fosse del tutto consapevole – della cinepresa, dello sguardo altrui, della carriera – e chi la dipinge in balia delle situazioni, personali e mediatiche, una predestinata al dolore (il suo psicanalista la definì, di fatto, una causa persa), che smetteva di essere terrorizzata solo con bambini e animali («gli animali non la umiliavano», disse Arthur Miller). La sua capacità di reggere versioni disparate ed essere interpretabile a piacere, massimo grado della vulnerabilità/massimo grado della forza, è uno dei segreti della sua figura. Così, il fotografo Milton H. Greene: « Non avevo mai incontrato una che avesse quel tono di voce, quella gentilezza, quell’autentica dolcezza. Se per strada vedeva un cane morto, si metteva a piangere. Era così sensibile che bisognava stare sempre attenti al modo in cui le si parlava. In seguito avrei scoperto che era una schizoide, che poteva essere assolutamente brillante o assolutamente gentile, e poi tutto il contrario».
O ancora, Cecil Beaton, autore dei ritratti forse più belli di Marilyn, a proposito delle loro sedute: «Giocherella, squittisce compiaciuta, si adagia sul sofà. Si mette in bocca il gambo di un fiore, aspira una margherita come fosse una sigaretta. È una performance spontanea, improvvisata, vivace. Probabilmente finirà in lacrime». «Nuvola di panna e fragole», «matta come un cavallo», «baciarla era come baciare Hitler», «non era solo difficile, era impossibile», «bimba smarrita»: di qui e di là, e poi da nessuna parte: dov’è Marilyn Monroe? «Spesso ho una strana sensazione», confesserà lei, «come se stessi prendendo in giro qualcuno, ma non so chi. Forse me stessa, forse gli altri. Sapevo di appartenere al pubblico e al mondo, non per il talento o la bellezza, ma perché non ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro», dice Marilyn altrove.
Da niente a tutto
Vita microscopica e poi gigantesca, negli occhi di tutti: partita dalla più asfittica deprivazione, Norma Jeane è riuscita non solo a farsi vedere dal mondo ma in qualche modo a superarlo, contenerlo in sé. Ragazza venuta dal niente e affamata di tutto, riesce a espandere i suoi confini – della pelle diafana, dei suoi abiti sgargianti ed eccessivi, delle pose immortali: nuda a letto, velluto rosso, gonna che s’alza, happy birthday Mister President – sino farsi presenza simbolica, che assembla e offre tante donne possibili. Adolescente bloccata nel tempo, dea del sesso, imprenditrice, moglie esaltata e poi umiliata, amante dei fratelli più potenti d’America, paziente psichiatrica.
Monna Lisa
Anche così si spiegano gli infiniti tentativi di imitazione, citazione, possessione – da Madonna alla recente polemica per l’abito del 1962 indossato da Kim Kardashian sul red carpet dell’ultimo Met Gala, passando per Cindy Crawford, Gwen Stefani, Naomi Watts, Christina Aguilera, Angelina Jolie, Scarlett Johansson, Michelle Williams, Paris Hilton e G W tantissime altre. Come Monna Lisa, l’immagine di Marilyn penetra nel bagaglio iconografico universale e contamina tutto, continuando a produrre ovunque copie, tracce, marchi, segni di sé, senza mai davvero consumarsi, creare inflazione. L’orfana indesiderata diventa un clamoroso dispositivo mediatico. Dai ritratti seriali di Andy Warhol in poi – lo street artist Banksy nel 2005 ne ha prodotto una specie di sua versione aggiornata, con Kate Moss per protagonista, battuta all’asta quest’anno per un valore più alto degli originali warholiani -, la bambina non amata, incantesimo degli incantesimi, ha ottenuto non solo lo sguardo di massa ma la riproduzione intensiva e globale. È sotto gli occhi di tutti.
Il desiderio e la sua fine
Marilyn, una sopravvissuta che desiderava molto, e perciò veniva molto desiderata.
Il suo bisogno di sguardo l’ha resa la più brava a farsi sognare. Disse: «Quando ero piccola, nessuno mi diceva mai che ero carina. Bisognerebbe dirlo a tutte le ragazzine, anche se non lo sono». Marilyn è anche un grande mito sul lato oscuro del desiderio. Lei riempie i nostri occhi, giganteggia fulgida sugli schermi e sui miliardi di stampe e riproduzioni ma, allo stesso tempo, ci parla delle derive di tutta questa forza d’attrazione, insinua quali possono essere i sentieri fatali su cui i desideri conducono. Marilyn muore il 5 agosto 1962, a 36 anni, nel letto, con la cornetta del telefono in mano, e c’è chi ha visto in quel telefono abbandonato a terra un simbolo della sua vita, e della vita umana in generale. La sua storia è finita presto, e tutte le storie interrotte ci invitano a essere continuate nella mente, prolungate nello spazio/tempo di cui non hanno potuto disporre: avremmo potuto salvare Marilyn Monroe?
Le sue mancanze e le nostre
La maschera che occulta l’abisso: Marilyn tiene insieme una dimensione fissa, la bidimensionalità tipica di tutte le icone, e lampi di sconvolgente profondità. Piena di gioia e insieme facile allo strazio, in pubblico macchietta bionda dalla voce tutta sussurri e poi fuori incline, come racconta il costumista Travilla, a smottamenti segreti: «A uno sguardo superficiale sembrava una ragazza leggera. Ma quelli che la criticavano non l’hanno mai vista, come me, piangere come una bambina. Spesso si sentiva così inadeguata. Ogni tanto soffriva di tremende depressioni e si metteva a parlare di morte ». Continuiamo a tornare a lei, le sue mancanze primigenie sono le nostre: consciamente o no, Marilyn Monroe è un eccezionale campo di rispecchiamenti e proiezioni. Ancora oggi ha la capacità di creare narrazione, al di là delle cose che hanno cercato di farle raccontare sullo schermo, che erano poi sempre le stesse – accalappiatrice di mariti ricchi, preda svampita, corpo che riempie bei vestiti. Marilyn ha assecondato tutto questo – comprendere Marilyn è dunque anche comprendere l’addestramento alla femminilità – ma all’interno e fuori dal set ha raccontato altro.
Burattina e Burattinaia
Plasmata dalle figure che aveva attorno – che ne hanno modificato il nome, decolorato i capelli, che le hanno imposto come parlare, camminare, ammiccare -, è riuscita a impadronirsi di questi codici uniformi. Incoraggiata ad aderire a modelli già predisposti, sembrerebbe non essersi inventata nulla – dumb blonde, blonde bombshell, oca bionda, bomba sexy, pin up, in Italia le avremo chiamate “maggiorate”, – salvo poi scuotere lo stereotipo con la sua inquietudine, rendendolo tridimensionale e quindi umbratile, a tratti sinistro. Avendo così tanto bisogno di quello sguardo lei ha fatto sconfinare la caricatura nel mito, rivelandone insieme il potenziale tragico. Burattina e burattinaia, è stata pupazzo e ventriloquo della bambola che lei stessa ha accettato (finto) di essere, creandosi un sé artificiale. Da qui la frattura o dislocazione d’anima: tutto ciò che l’ha resa eccezionale stava forse anche alla base della sua sofferenza.
Le sagome di cartone
Marilyn non fu una donna emancipata nel senso canonico previsto dal femminismo, né di ieri né di oggi, non rifiutò le convenzioni sessiste e oppressive del suo mondo. La sua rivoluzione è di altro tipo. Ebbe bisogno del sistema, del male gaze , del desiderio dei maschi, per mettersi in salvo dalla voragine del passato e provare a sentirsi amata. Il sistema probabilmente ha logorato la sua mente e lacerato il suo cuore ma non ha annientato la sua personalità: mischiando il codice imposto con molte altre cose, sue, originali e struggenti, se n’è impadronita una volta e per sempre. Marilyn Monroe ha reso le sagome di cartone in cui hanno cercato di costringerla a forza molto più vere e vive di quel che volevano essere, e questo l’ha resa più grande del tempo. Ha assunto su di sé, fino a condurla al punto di rottura, alla nefasta, eclatante detonazione, la questione del rapporto tra l’io e gli altri, il nostro essere carne esposta sempre in attesa di una risposta dal mondo. Al giornalista di Life a cui rilascia l’ultima intervista prima di morire, la diva, l’icona, il sogno di tutti, chiede: «La prego, non mi faccia apparire ridicola».
30 luglio 2022 (modifica il 30 luglio 2022 | 14:08)
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, 2022-08-05 05:38:00, Sessant’anni fa moriva la diva. Da bambina non vista e non amata seppe trasformarsi nell’oggetto inesauribile del desiderio e assunse su di sé, fino a condurla al punto di rottura, la questione del rapporto fra noi stessi e gli altri. Avremmo potuto salvarla?, Jonathan Bazzi