di Aldo CazzulloIl legame con Bossi (e quel primo comizio in un albergo a Como che finì con un pugno), i giudizi spietati sull’amico Giorgetti e il vaticinio su Beppe Grillo Roberto Maroni (morto a 67 anni) era un uomo buono. Appassionato, non estremista. Questo non significa dimenticare che era un militante politico, talora anche duro. Non si tirò mai indietro. Seguì Bossi nella svolta secessionista. Lo detronizzò dopo lo scandalo Belsito, il tesoriere che finanziava la “family”. Andai a intervistarlo quando ruppe con il fondatore. Raccontò la storia dei diamanti in Tanzania, delle spese pazze. Aveva messo i bilanci della Lega in mano a una società internazionale di revisione dei conti (dietro l’aspetto naïf, Maroni era uomo di frequentazioni importanti, fin da quando aveva sposato la figlia del padrone dell’Aermacchi). Il suo ufficio era pieno di foto con Bossi in tutte le posizioni e in tutte le divise, dalla canottiera alla camicia verde, dalla t-shirt alla cravatta del giuramento. Mi raccontò il loro primo comizio, in un albergo di Como. «Era il marzo 1980. Sul palco eravamo in tre: Umberto, io e Bruno Salvadori dell’Union Valdotaine, che finanziava il nostro movimento, la Lega autonomista lombarda. In platea erano in quattro: due della Digos, un impiegato dell’albergo incuriosito, e un tipo che faceva sì con la testa. Il Bossi lo puntò: ecco il primo seguace, pensava. Invece era un picchiatore fascista. A fine comizio, appena Umberto lo avvicinò, quello gli tirò un pugno…». Eppure con Bossi in quell’intervista fu molto duro. Lo fu pure con il suo amico Giancarlo Giorgetti: «È molto intelligente. Ma un uomo deve avere tre C; cervello, cuore, coglioni. Non tutti possono avere tutto». Del suo conterraneo varesotto Mario Monti, che era presidente del Consiglio, disse: «Si fa dettare l’agenda da Merkel e Sarkozy». Non salvò neppure Berlusconi, di cui era stato più volte ministro: «Noi stessi siamo stati costretti dai francesi e dagli americani a fare una guerra in Libia che non volevamo». Non credeva nello sbarco leghista al Sud, vagheggiava semmai un’alleanza federalista con “un Bossi napoletano, quando spunterà”. Per il futuro della Lega pensava a un tandem tra Flavio Tosi, front-runner elettorale, e Matteo Salvini, chiamato a riorganizzare il partito; non prevedeva che il secondo si sarebbe mangiato il primo. Vide però arrivare i 5 Stelle. Mi mostrò sul telefonino una sua foto abbracciato a Beppe Grillo: «L’avevo accompagnato da un cronista della Padania che voleva intervistarlo. Ha fiuto politico. In lui rivedo la Lega delle origini». Quando nel 1994 litigò con Bossi che aveva fatto cadere il primo governo Berlusconi, si disse che sarebbe finito in Forza Italia. Ma Bobo Maroni gridò nel microfono: «Sono nato con la Lega, morirò con la Lega». È stato di parola. 22 novembre 2022 (modifica il 22 novembre 2022 | 12:02) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-11-22 11:02:00, Il legame con Bossi (e quel primo comizio in un albergo a Como che finì con un pugno), i giudizi spietati sull’amico Giorgetti e il vaticinio su Beppe Grillo, Aldo Cazzullo