Massimo Riella, droga e armi nel covo: le perquisizioni in Valsassina. Il padre: «È un pazzo»

Massimo Riella, droga e armi nel covo: le perquisizioni in Valsassina. Il padre: «È un pazzo»

Spread the love

di Andrea Galli

Le indagini dopo la cattura del latitante in Montenegro. Attesa per l’estradizione. Caccia ai compaesani e ai commercianti che hanno protetto la fuga. L’ipotesi che lo stessero per «vendere». Così l’amante slava l’ha tradito. Il padre: «Venti giorni fa l’ultimo contatto. Non so più cosa abbia in testa Massimo»

Il diretto interessato è un caso chiuso. Soltanto lui però, ovvero l’ex perfetto sconosciuto Massimo Riella, 48 anni, evaso il 12 marzo, catturato sabato in Montenegro in un appartamento della capitale Pogdorica, e divenuto tra fine primavera e inizio estate antologia della latitanza. Incerti i tempi dell’estradizione, però a chi indaga qui in Italia – carabinieri e polizia penitenziaria –, i tempi poco o nulla importano. Adesso, conclusa l’estenuante ricerca nonostante Riella avesse un modesto peso criminale nonché scarsi mezzi economici, di relazioni delinquenziali e crediti da riscuotere, è iniziata la fase 2. Che sarà intensa e implacabile. Compaesani e commercianti l’hanno nascosto, protetto, vestito, cibato; gli hanno dato, s’ignora se per puro animo generoso e una sorta di solidarietà inter pares – insomma valligiani che un po’ pensano di vivere in una Repubblica autonoma, quindi alieni alle regole dello Stato – posti letto, trappole per catturare animali, stecche di sigarette. E forse pure altro.

La rapina ai due novantenni

Se è notorio il passato di illeciti di Riella – furti di parquet ai concorrenti quand’era imprenditore edile, e soprattutto storie di droga –, sono stati gli stessi familiari e i conoscenti, nel corso di questi quattro mesi di mezze bugie, presunte dritte, improponibili versioni, a rivelare la sua vicinanza con gli stupefacenti. Potrebbe essere un caso, ma magari no, per niente, che dalle prime perquisizioni condotte dai carabinieri nell’intera, vasta area primo nascondiglio di Riella siano saltate fuori dosi e armi. Il tempo ci dirà un eventuale collegamento diretto sia con l’ex fuggiasco che con i fiancheggiatori. Che sono tanti. L’intenzione della Procura, che coordina il Comando provinciale dell’Arma di Como, è quella di procedere – conviene ricordarlo – senza sconti né esitazioni. Al netto delle oggettive difficoltà logistiche delle indagini, praticamente estese nell’infinito, sui bricchi tra le sponde del lago e la Svizzera senza contare gli sconfinamenti del ricercato nel Lecchese e in Valtellina, rimarrà innegabile la densa coltre di omertà, di mancata collaborazione, di sfida perpetua alle forze dell’ordine. Nemmeno stessero coprendo un bimbo che giocava a nascondino: il pregiudicato Massimo Riella era stato arrestato lo scorso dicembre con l’accusa di aver rapinato due novantenni del paese sotto il suo, Brenzio, una frazione di 60 abitanti con un’unica strada per entrare e uscire. Prendere di mira, a casa loro, due poveri anziani per raccattare delle banconote… Ma si può? Il papà 80enne Domenico, ex operaio sulle gru in Canton Ticino e oggi naturista, cioè esperto in consigli su come campare bene rispettando il corpo – sì mele, bagni turchi e verdure; no caffè, alcol e cene – ha detto, ripetuto e ancora ripetuto che d’accordo tutto, ma una cosa così schifosa, «aggredire due vecchietti», non è «roba da Massimo. Impossibile». Eppure abbiamo letto il fascicolo del fatto, non certo un rapido riassunto per archiviare la pratica quanto un’inchiesta assai strutturata, e ogni elemento converge contro Riella a cominciare dalle nette testimonianze delle stesse due vittime.

Da mamma Agnese

Il signor Domenico ha avuto l’ultimo contatto col figlio una ventina di giorni fa. Il latitante stava in Valsassina. Non s’erano visti o sentiti: era stata una persona, l’ennesimo fiancheggiatore, a veicolare a Brenzio informazioni circa le condizioni di salute. «Stava bene, nonostante la ferita… Di sicuro, il mio Massimo è definitivamente un pazzo. Un pazzo colossale. Ma perché non si è consegnato? Oh, quante volte gliel’ho detto… Lui no, testone di uno… Dio mio, cosa diavolo gli è saltato in mente di andare là in Montenegro? Di lasciare l’Italia peggiorando ancor più la situazione?». Situazione che risulta infatti grave, gravissima, dovendo sommare all’evasione altri reati. Stavolta la permanenza in cella sarà lunga. E gli monteranno una guardia bestiale. Mica come l’altra volta, per appunto il 12 marzo, incipit di questa narrazione investigativa sovente esondata in commedia umana. Da giorni Riella, detenuto nel carcere di Como, protestava per andare a pregare sulla tomba della mamma Agnese, deceduta da poco. Per sostenere la vertenza, da uomo scarsamente incline alle trattative verbali, aveva preso e s’era arrampicato sul tetto del penitenziario. Del resto è uno con la passione di salire sui bricchi impennando con la moto da cross, e fa niente se basta un centimetro sbagliato per precipitare. Ebbene, da lassù Riella aveva minacciato gesti (ulteriormente) inconsulti. Sicché si erano dovuti arrendere e avevano accordato l’accompagnamento a Brenzio.

La discarica

Entrando nella frazione di Brenzio, a sinistra si scende al cimitero percorrendo una stradina, mentre a destra sorgono le proprietà immobiliari dei Riella. Prima delle proprietà, sorge un prato in pendenza in realtà discarica essendovi abbandonati mattoni, pietre, pezzi di mezzi agricoli, bidoni. Ma andiamo avanti. Sul furgone della penitenziaria le guardie erano cinque. Riella non aveva le manette, o meglio non le aveva al momento di scendere. C’è un’indagine anche su questa anomalia anche se pare che, contando sulla disarmante superiorità numerica, il capo della missione volesse consentire a Riella di vivere il momento e di farsi vedere dai compaesani senza i ferri ai polsi. Fatto sta che appena toccato l’asfalto il detenuto aveva mollato due calci e cominciato a correre. L’avevano subito perso. Per la cronaca, nel cimitero, al fianco della mamma, riposa anche l’unico fratello, Cristian, che perse la vita trentenne in un incidente in moto. «Per forza – ci aveva spiegato papà Domenico – prendeva le curve dei paesini a duecento all’ora». Ma, di nuovo, andiamo avanti. Comunque sottolineando che l’insistenza per visitare la tomba era un’enorme balla. Riella studiava come evadere e quella gli sembrava un’occasione vincente.

Il lancio kamikaze

Per lavare l’onta la polizia penitenziaria aveva innescato un caccia furiosa. Furiosa ma pianificata e in forze. Anche i carabinieri del comandante provinciale, il colonnello Ciro Trentin, erano naturalmente entrati in partita. Soltanto che la partita s’era presto trasformata in un muro contro pacifiche ma dirimenti bande ribelli. Chi oggi e chi domani, via via i valligiani avevano badato a che Riella non venisse catturato. Gli inseguitori ci erano andati vicino, ma vuoi per il sopra menzionato dilatato terreno di scontro – che facevano, spedivano cinquecento uomini guidati da tre elicotteri? – vuoi appunto per la progressione della rete di copertura finanche con divertimento di compaesani e montanari nel fregare le forze dell’ordine, i giorni avevano iniziato a passare. E del latitante nessuna traccia. Fino ad aprile, quando si sparse la voce di un presunto conflitto a fuoco, con i colpi esplosi da due guardie penitenziarie le quali, seguendo papà Domenico, era arrivate a ridosso di Riella, lo avevano acciuffato ma quello s’era divincolato, allora i poliziotti avevano sparato in aria per intimargli di fermarsi ottenendo il lancio kamikaze del fuggiasco in un burrone. L’indomani, a Brenzio, la notizia era questa: «L’hanno ammazzato». Siccome però le accurate ispezioni non avevano evidenziato nemmeno una goccia di sangue nella zona, e siccome ulteriori ispezioni avevano escluso la presenza d’un cadavere – non degnando di menzione, per carità, la vulgata secondo la quale gli animali selvatici avevano divorato l’intero corpo in un amen -, ecco, nella frazione avevano modificato il racconto evocando un Massimo Riella terribilmente ferito da un proiettile e prossimo a spegnersi dissanguato.

L’amante

Ora, uno arriva in Montenegro con un proiettile nel petto, o ammesso che l’abbiano medicato e curato affronta un viaggio così disperato – da Como a Podgorica son 1.200 chilometri non di agevoli autostrade – in precarie condizioni fisiche? A proposito, mancano un’altra domanda e la sua risposta: ma come ci è andato a Podgorica? Treno, camion, macchina? Tocca a lui spiegarlo. A meno che il falsario, cui l’ennesima amante di origine slave di Riella, separato dalla moglie (una figlia) e separato pure dalla compagna (due figli) ha telefonato ignorando di cadere in una rete di telefonate intercettate, di fatto sigillando la chiusura della caccia, ecco a meno che il falsario, qui in Italia, per alleggerire la propria posizione racconti tutto quanto ai carabinieri. Si venda Riella. Ma d’altronde si crede che la sparizione dalle montagne sia stata una conseguenza dell’aria che tirava. Martellati, i fiancheggiatori stavano cedendo ed erano prossimi a tradirlo. «Tempo al tempo», ci disse all’epoca un investigatore. Tempo al tempo. Quello da calcolare in cella, magari facendosi portare l’abbondante rassegna stampa sulle proprie durature peripezie da (ex) perfetto sconosciuto destinato a rientrare nell’anonimato.

Se vuoi restare aggiornato sulle notizie di Milano e della Lombardia iscriviti gratis alla newsletter di Corriere Milano. Arriva ogni sabato nella tua casella di posta alle 7 del mattino. Basta cliccare qui.

22 luglio 2022 (modifica il 22 luglio 2022 | 07:43)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-07-22 05:39:00, Le indagini dopo la cattura del latitante in Montenegro. Attesa per l’estradizione. Caccia ai compaesani e ai commercianti che hanno protetto la fuga. L’ipotesi che lo stessero per «vendere». Così l’amante slava l’ha tradito. Il padre: «Venti giorni fa l’ultimo contatto. Non so più cosa abbia in testa Massimo», Andrea Galli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.