di Alessandro Vinci
Ex giocatore di Serie A, dopo aver attraversato seri problemi di droga vive in condizioni di indigenza nella sua Palermo: «A 60 anni chi mi assumerebbe?»
Incontriamo Maurizio Schillaci poche ore prima di Italia-Macedonia del Nord davanti al Teatro Massimo di Palermo, dove trascorre le sue giornate in compagnia dell’inseparabile cane Johnny. Chi lo ha visto crescere calcisticamente non ha mai avuto dubbi nel definirlo perfino più talentuoso del cugino Salvatore, l’illustre Totò delle notti magiche del 1990. Non fosse stato per un destino a dir poco inclemente, dunque, forse anche lui avrebbe avuto tutte le carte in regola per vivere il suo sogno a tinte azzurre.
Nato nel capoluogo siciliano il 1° febbraio 1962, fino ai 24 anni si era reso protagonista di una carriera in continuo crescendo: dall’esordio in rosanero nemmeno maggiorenne alla promozione in C1 ottenuta nella stagione 1984-1985 tra le fila del Licata di Zeman, fino alla grande chiamata della Lazio in Serie A. Correva il mese di ottobre 1986 e per il rapido Maurizio, duttile esterno offensivo in grado di giostrare anche sulla trequarti, si erano aperte le porte del grande calcio. Non restava che consacrarsi sul palcoscenico più importante, invece è stato proprio a quel punto che i suoi sogni si sono improvvisamente infranti, facendolo piombare in un tunnel del quale dubita ormai di riuscire un giorno a intravedere la fine.
Tutto è iniziato dopo le prime presenze nella Capitale: «I medici sociali mi hanno rovinato – racconta –. Secondo loro ero un malato immaginario, un siciliano senza carattere. Questo, dopo tanti anni, ancora non mi va giù. Dicevano che non avevo voglia di giocare, la realtà è che avevo lo scafoide del piede destro lesionato e in necrosi. Per un anno ho continuato a dire che stavo male, ma nessuno mi credeva. Alla fine per farmi fare finalmente una stratigrafia ho dovuto attendere il mio successivo trasferimento al Messina, in Serie B». Ossia quando il treno giusto era ormai passato, per giunta lasciandolo alle prese con un grave problema fisico che, non essendo stato curato in tempo, di fatto non gli ha più permesso di rivedere il campo con continuità. Da lì al ritiro ad appena 31 anni – dopo alcune fugaci apparizioni con le maglie di Juve Stabia e nuovamente Licata – è stato un batter d’occhio.
«Finché giochi tutti ti amano – spiega –, ma quando smetti ti ritrovi da solo. È il vuoto». Un vuoto che l’ex enfant prodige ha riempito rifugiandosi nella droga. Eroina, soprattutto. L’inizio di una spirale negativa che lo ha poi portato a vivere da senzatetto , chiedendo l’elemosina per le vie del centro. «E ringrazio Gesù per essere ancora qui a raccontarlo», dice. Perlomeno negli ultimi tempi la situazione è leggermente migliorata: mentre prima Maurizio dormiva all’interno di una Panda trovata aperta a bordo strada, oggi un conoscente gli ha concesso l’utilizzo di un piccolo appartamento in cambio di un affitto poco più che simbolico. Di un lavoro che gli garantirebbe stabilità economica, però, nemmeno l’ombra: «Ho 60 anni e ho giocato solo a pallone – constata con malcelata amarezza –, chi mai mi assumerebbe?».
Dall’Olimpo del calcio professionistico a un regime di indigenza che, oltre al denaro, ben presto gli ha fatto mancare anche gli affetti più cari. Il suo maggior desiderio, in questo senso, è quello di riallacciare i rapporti con le figlie Giada e Alessia, nate da due matrimoni diversi. Quanto al cugino Totò, tutto tace ormai da decenni. Maurizio, pur non avendo rimpianti, non ha problemi a riconoscere gli errori commessi. La sua storia – oggetto tra l’altro di un libro e di un documentario del regista Davide Vigore intitolati Fuorigioco – impone tuttavia serie riflessioni sulla necessità di supportare i giocatori nella delicata fase post ritiro. Un tema caro, per esempio, all’ex presidente dell’Aic Damiano Tommasi. Quello del classe 1962, d’altronde, non può che essere un bilancio negativo: «Il calcio mi ha dato tanto ma mi ha tolto ancora di più – afferma –. Per questo ora non lo guardo, me ne sono distaccato radicalmente».
Considerate le difficoltà che non ha mai smesso di attraversare, facile sarebbe per lui vantarsi dei tempi che furono. Restare ancorato a un passato in cui tutto filava per il verso giusto. Eppure così non è. Guai dunque a chiedergli, in tema di Nazionale, se anche lui senza quel maledetto infortunio sarebbe arrivato a farne parte: «Lo lascio dire agli altri – dichiara –, a chi mi ha conosciuto calcisticamente. Non sono un presuntuoso. Anzi, a dirla tutta mi sarei anche stufato di quello che si dice su di me, come per esempio che ero più forte di mio cugino. Non me ne importa più niente, e in ogni caso anche se fosse vero io non lo direi mai». Perché la parola umiltà, nel suo caso, fa davvero rima con dignità.
26 marzo 2022 (modifica il 26 marzo 2022 | 21:28)
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, 2022-03-26 20:28:00, Ex giocatore di Serie A, dopo aver attraversato seri problemi di droga vive in condizioni di indigenza nella sua Palermo: «A 60 anni chi mi assumerebbe?», Alessandro Vinci