di Paola Di Caro La strategia si rafforza: per lei il ruolo di frontrunner contro Letta. Il leghista rinuncia a una sua battaglia: i ministri? Dopo le elezioni ROMA- Nel giorno in cui Giorgia Meloni ufficializza quello che ormai era nelle cose, Matteo Salvini batte un colpo. La leader di Fratelli d’Italia infatti spazza via ogni possibile ambiguità su candidati terzi, tecnici, di area da lei indicati nel caso in cui sia il suo partito ad ottenere «un voto in più»: «Presumo che sarei io premier, perché non dovrei esserlo?», dice. E l’alleato replica con quella che sembra una marcia indietro ma in realtà, ragionano in FdI, sembra la mossa che «qualcuno dei suoi, magari un po’ più accorto di lui, gli avrà suggerito…». Ovvero, rinuncia a rivendicare un ministero per sé o per i suoi e si rimette in pista per conquistare lui stesso la leadership: se la Lega fosse primo partito «sono pronto a assumermi l’onere e l’onore di prendere per mano questo Paese e di scegliere il meglio per questo Paese», rivendica. Nessuna sorpresa insomma per Meloni, che attraverso i suoi negli ultimi giorni aveva quasi «concesso» a Salvini il ministero a cui tiene, gli Interni: un modo per rendere ancora più evidente che l’unica front runner è lei, come oggi i sondaggi certificano, ma manca un mese e mezzo al voto. Che Meloni non vuole dare troppo per scontato. Non c’è dubbio che al tavolo delle candidature nel centrodestra si respiri un’aria — se non euforica — almeno più leggera. La decisione di Calenda di rompere l’alleanza con il Pd cambia le previsioni sul voto nei collegi uninominali. Le sei fasce usate fino a ieri — A1, A2, A3-B1, B2, B3, in ordine decrescente da vittoria certa a impossibile —, oggi vedrebbero molti più collegi A che B: «Perfino Roma, il Mugello, Bologna diventano più che contendibili!», c’è chi esulta fra gli azzurri. E non c’è dubbio che i candidati nell’uninominale hanno oggi in tantissimi la speranza di essere eletti. Per FI, secondo alcuni calcoli, ce la farebbero in 38 su 42 posti. Ma non è tutto oro quel che luccica, e proprio in FdI si vietano voli pindarici. È vero — spiega Giovanbattista Fazzolari, fedelissimo consigliere della Meloni — che se il fronte avversario è diviso è più facile vincere nei collegi, ma con il maggioritario sono attribuiti solo un terzo dei seggi, il resto è proporzionale…». Che significa? Secondo primi studi fatti dagli esperti della coalizione, il Pd con Calenda avrebbe preso 10-15 collegi in più di quanti ne prenderebbe ora, ma entrambi i partiti avrebbero perso qualcosa col proporzionale. Divisi, certo mancheranno eletti nell’uninominale ma il Pd non perderebbe «quasi nulla» come lista, anzi potrebbe crescere a sinistra, e Calenda, se superasse il 7-8% avrebbe sostanzialmente più eletti. Percentuali che crescendo ancora sarebbero sottratte un po’ a tutto il centrodestra, ma soprattutto a FI di cui si teme un forte calo. Anche per questo si sta ragionando di non moltiplicare le liste centriste, che se non superassero l’1% disperderebbero i voti. E le incognite sono ancora troppe per permettersi perdite anche minime. Non tanto per il timore di una vittoria degli avversari, troppo divisi, ma perché governare con pochi voti di scarto «sarebbe faticosissimo» e a rischio. Anche per questo la leader ci tiene a blindare le sue truppe, che dovranno essere «soldati». Ancora più grave se mancasse la maggioranza in una delle due Camere. In quel caso tutto tornerebbe in gioco. Dunque la strategia di Meloni non cambierà: lei continuerà a presentarsi con uscite mirate come front runner e soprattutto a considerare suo sfidante solo e soltanto Enrico Letta. Perché certo conviene un Pd più forte a discapito di un terzo polo (che secondo lei si alleerebbe con Letta in Parlamento, se si aprisse uno spazio) più debole. Ma anche perché, riportano il suo pensiero i suoi: «la sfida è davvero tra FdI e Pd: chi vince governa. E lo sarà fino alla fine». 9 agosto 2022 (modifica il 9 agosto 2022 | 08:30) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-08-09 08:11:00, La strategia si rafforza: per lei il ruolo di frontrunner contro Letta. Il leghista rinuncia a una sua battaglia: i ministri? Dopo le elezioni, Paola Di Caro