editoriale Mezzogiorno, 7 dicembre 2022 – 08:32 di Sergio Marotta Da quando cambiata la maggioranza di governo l’autonomia differenziata tornata prepotentemente al centro del dibattito pubblico. La spinta politica impressa dal ministro Calderoli e il recente intervento sul tema di Giorgia Meloni stanno determinando un riposizionamento delle forze politiche in campo e una forte levata di scudi contro questo progetto da parte delle opposizioni.La maggiore resistenza viene esercitata dalle regioni del Sud che sarebbero fortemente penalizzate dall’autonomia differenziata. Mentre le regioni del Nord, comprese quelle amministrate da maggioranze di centrosinistra, sembrano decisamente orientate verso una effettiva realizzazione della riforma del 2001. Le opposte posizioni delle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord non solo danno nuova linfa alla questione meridionale che era stata dimenticata nel corso degli anni novanta del secolo scorso, ma mettono a nudo una diversa visione politica tra Stato centrale e regioni del Nord e del Sud che rischia di spaccare il Paese. Uno dei pochissimi giuristi italiani che lottarono, prima, contro l’inganno federalista proposto dalla Lega e, poi, contro l’approvazione della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione fu il professor Gianni Ferrara. Questi aveva individuato l’origine del cortocircuito istituzionale tra Stato e Regioni, non tanto e non solo nel Titolo V, bens nella doppia matrice della legittimazione politica dei quindici presidenti delle regioni a statuto ordinario rispetto a quella del governo nazionale. Questa doppia matrice fu malauguratamente introdotta con la riforma costituzionale del 1999 che estese ai presidenti delle regioni la legge sull’elezione diretta dei sindaci, di cui ai referendum Segni. Il testo dell’articolo 122 della Costituzione, come modificato nel 1999, prevede infatti che i presidenti delle giunte regionali possano essere eletti a suffragio universale; mentre il nuovo testo dell’articolo 126 prevede che soltanto la mozione di sfiducia nei confronti del presidente della giunta eletto a suffragio diretto pu provocare lo scioglimento del Consiglio regionale che, quindi, un organo necessariamente subordinato al presidente, salvo suicidio politico. Gianni Ferrara definiva il nuovo assetto dei poteri dei presidenti delle regioni a Statuto ordinario come un vero e proprio feudalesimo elettivo, perch l’incremento del potere delle regioni in realt un incremento del potere dei presidenti delle giunte regionali, non temperato da nessun altro. Insomma se il Titolo V del 2001 era, secondo Ferrara, un monumento all’insipienza giuridica e politica — dove per insipienza deve intendersi ignoranza, stoltezza intellettuale o morale, ottusit di spirito —, la coesistenza tra la riforma del 1999 e quella del 2001 ha dato luogo a un unicum nei sistemi costituzionali degli Stati unitari occidentali che pone i presidenti delle regioni in un potenziale conflitto politico permanente con il governo nazionale. Se si considera la legittimazione popolare derivante dall’elezione diretta dei presidenti delle regioni che sono contemporaneamente esponenti di formazioni politiche nazionali, si pu comprendere questa continua contraddizione nella posizione ondivaga delle forze in campo a seconda che siano maggioranza nel governo centrale e minoranza in quello regionale ovvero minoranza nel governo centrale e maggioranza in quello regionale. E quello che appare come un assurdo tira e molla e un continuo cambio di posizione a seconda delle convenienze inspiegabile agli occhi di osservatori sensibili come Marco Demarco e Giancristiano Desiderio ovvero esecrabile agli occhi di giuristi attenti come il presidente della Sezione campana della corte dei Conti, Michele Oricchio, che, con felice intuizione, ha descritto le Regioni italiane n pi n meno che come moderne signorie. 7 dicembre 2022 | 08:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-12-07 07:33:00, editoriale Mezzogiorno, 7 dicembre 2022 – 08:32 di Sergio Marotta Da quando cambiata la maggioranza di governo l’autonomia differenziata tornata prepotentemente al centro del dibattito pubblico. La spinta politica impressa dal ministro Calderoli e il recente intervento sul tema di Giorgia Meloni stanno determinando un riposizionamento delle forze politiche in campo e una forte levata di scudi contro questo progetto da parte delle opposizioni.La maggiore resistenza viene esercitata dalle regioni del Sud che sarebbero fortemente penalizzate dall’autonomia differenziata. Mentre le regioni del Nord, comprese quelle amministrate da maggioranze di centrosinistra, sembrano decisamente orientate verso una effettiva realizzazione della riforma del 2001. Le opposte posizioni delle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord non solo danno nuova linfa alla questione meridionale che era stata dimenticata nel corso degli anni novanta del secolo scorso, ma mettono a nudo una diversa visione politica tra Stato centrale e regioni del Nord e del Sud che rischia di spaccare il Paese. Uno dei pochissimi giuristi italiani che lottarono, prima, contro l’inganno federalista proposto dalla Lega e, poi, contro l’approvazione della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione fu il professor Gianni Ferrara. Questi aveva individuato l’origine del cortocircuito istituzionale tra Stato e Regioni, non tanto e non solo nel Titolo V, bens nella doppia matrice della legittimazione politica dei quindici presidenti delle regioni a statuto ordinario rispetto a quella del governo nazionale. Questa doppia matrice fu malauguratamente introdotta con la riforma costituzionale del 1999 che estese ai presidenti delle regioni la legge sull’elezione diretta dei sindaci, di cui ai referendum Segni. Il testo dell’articolo 122 della Costituzione, come modificato nel 1999, prevede infatti che i presidenti delle giunte regionali possano essere eletti a suffragio universale; mentre il nuovo testo dell’articolo 126 prevede che soltanto la mozione di sfiducia nei confronti del presidente della giunta eletto a suffragio diretto pu provocare lo scioglimento del Consiglio regionale che, quindi, un organo necessariamente subordinato al presidente, salvo suicidio politico. Gianni Ferrara definiva il nuovo assetto dei poteri dei presidenti delle regioni a Statuto ordinario come un vero e proprio feudalesimo elettivo, perch l’incremento del potere delle regioni in realt un incremento del potere dei presidenti delle giunte regionali, non temperato da nessun altro. Insomma se il Titolo V del 2001 era, secondo Ferrara, un monumento all’insipienza giuridica e politica — dove per insipienza deve intendersi ignoranza, stoltezza intellettuale o morale, ottusit di spirito —, la coesistenza tra la riforma del 1999 e quella del 2001 ha dato luogo a un unicum nei sistemi costituzionali degli Stati unitari occidentali che pone i presidenti delle regioni in un potenziale conflitto politico permanente con il governo nazionale. Se si considera la legittimazione popolare derivante dall’elezione diretta dei presidenti delle regioni che sono contemporaneamente esponenti di formazioni politiche nazionali, si pu comprendere questa continua contraddizione nella posizione ondivaga delle forze in campo a seconda che siano maggioranza nel governo centrale e minoranza in quello regionale ovvero minoranza nel governo centrale e maggioranza in quello regionale. E quello che appare come un assurdo tira e molla e un continuo cambio di posizione a seconda delle convenienze inspiegabile agli occhi di osservatori sensibili come Marco Demarco e Giancristiano Desiderio ovvero esecrabile agli occhi di giuristi attenti come il presidente della Sezione campana della corte dei Conti, Michele Oricchio, che, con felice intuizione, ha descritto le Regioni italiane n pi n meno che come moderne signorie. 7 dicembre 2022 | 08:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,
Pietro Guerra
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