La visita a Taiwan della presidente della Camera Usa, la democratica Nancy Pelosi, rappresenta un gesto di solidarietà per un’isola sotto la costante minaccia di un’invasione-annessione da parte della Repubblica Popolare cinese. È un riconoscimento importante che viene dalla terza carica istituzionale americana. L’ultima volta che accadde fu nel 1997 quando a Taipei si recò Newt Gingrich, repubblicano, allora presidente della Camera. Dopo di allora ci sono state delle visite di delegazioni parlamentari americane, sia pure non allo stesso livello, e ogni volta Pechino ha reagito duramente a quelle che giudica come «interferenze» in una «provincia ribelle». Questa volta le minacce cinesi sono andate ben oltre, fino a configurare un’escalation della tensione militare tra le due superpotenze. Per inquadrare l’evento, proviamo a vederlo da quattro prospettive diverse, quelle di quattro protagonisti: Nancy Pelosi; Joe Biden; Xi Jinping; e la presidente taiwanese Tsai Ing-wen.
Nancy Pelosiè la prima donna presidente della Camera a Washington. All’età di 82 anni si avvicina alla fine del suo mandato, tanto più che a novembre i repubblicani potrebbero riconquistare la maggioranza alla Camera. Il suo collegio elettorale è San Francisco, città che ha la più antica Chinatown degli Stati Uniti e una importante comunità sino-americana. La Pelosi è sempre stata attiva nel difendere i diritti umani in Cina: si ricorda un suo gesto clamoroso del 1991, due anni dopo il massacro di Piazza Tienanmen, quando proprio in quella piazza lei andò a manifestare per solidarietà con gli studenti uccisi (esibì uno striscione e fu subito allontanata dalla polizia). Nel 2015 ottenne dallo stesso presidente Xi Jinping il raro privilegio di visitare il Tibet, regione chiusa ai diplomatici e ai giornalisti stranieri dopo diverse proteste della popolazione locale contro il regime cinese. La Pelosi è stata anche la leader politica americana di più alto livello istituzionale a visitare Kiev dopo l’invasione militare russa in Ucraina. Il suo viaggio a Taiwan era già programmato in aprile, fu rinviato perché risultò positiva al test Covid. Questa missione a Taipei gode di un ampio sostegno bipartisan al Congresso di Washington. Molti deputati sia democratici sia repubblicani hanno dichiarato che cancellarla sarebbe un grave cedimento, in quanto equivarrebbe a concedere al governo di Pechino un diritto di veto su chi può visitare Taiwan. La Pelosi intende manifestare con il suo viaggio un sostegno all’isola governata democraticamente, per indicare che l’appoggio di Washington non si limita alla Casa Bianca ma coinvolge i rappresentanti eletti dal popolo americano. Probabilmente pesa anche la preoccupazione di non ripetere gli errori commessi con Vladimir Putin in Ucraina quando la prudenza della Casa Bianca (la promessa di «non mandare scarponi sul terreno», il reiterato rifiuto di istituire una no-fly zone, l’offerta a Zelensky di evacuarlo in Polonia) potè essere interpretata come un tacito via libera all’invasione.
Joe Biden avrebbe fatto volentieri a meno di questo nuovo focolaio di tensione. Nei giorni scorsi ha mandato dei messaggi espliciti a Nancy Pelosi esortandola a rinviare questo viaggio. Con una mossa inusuale ha fatto sapere che anche il Pentagono lo giudica inopportuno per le conseguenze che potrebbe scatenare sul terreno militare, qualora Pechino decida delle rappresaglie dure (come per esempio una qualche forma di disturbo o intercettazione dell’aereo militare su cui viaggia la Pelosi). Poi però ha dovuto cessare i suoi richiami per non essere accusato di interferenza nei confronti del potere legislativo. Anche se è difficile spiegarlo ai cinesi, il cui sistema politico è «verticale» e obbedisce ad un’unica catena di comando, a Washington il presidente non ha alcun potere sul Congresso. Biden si è già spinto molto per esercitare una persuasione sulla sua compagna di partito. A sua volta, lui non può dare l’impressione di piegarsi di fronte alle minacce di Xi Jinping, che pochi giorni fa durante un colloquio telefonico gli ha detto: «Chi gioca con il fuoco finirà bruciato». Biden deve anche tener conto delle ripercussioni sugli alleati strategici degli Stati Uniti in Estremo Oriente, a cominciare da Giappone e Corea del Sud. Se l’America rinunciasse a difendere Taiwan da un’aggressione cinese, Tokyo e Seul potrebbero nutrire dubbi sulla protezione Usa e scivolare verso l’orbita di Pechino. L’America è a tutti gli effetti una potenza dell’Indo-Pacifico e non può abbandonare quest’area del mondo dove tanti alleati contano sulla sua protezione. Biden deve giostrarsi come un equilibrista sulla corda della cosiddetta«ambiguità strategica». Il dossier Taiwan è complicato perché dal 1978, in concomitanza con il disgelo diplomatico Washington-Pechino, la politica estera degli Stati Uniti riconosce la Repubblica Popolare come «unica Cina», ribaltando il comportamento di segno opposto che aveva adottato nel 1949 (quando Taiwan era «l’unica Cina» per gli americani, che nella guerra civile cinese avevano appoggiato le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek, poi sconfitte ed esiliate sull’isola). Al tempo stesso gli Stati Uniti seguono il principio che l’eventuale riunificazione potrebbe avvenire solo con metodi pacifici e quindi con il consenso di Taiwan. Se invece Pechino dovesse tentare l’annessione con la forza, Biden si è spinto fino a promettere l’intervento militare diretto degli Stati Uniti a difesa degli aggrediti. Le ultime uscite di Biden su Taiwan sono state interpretate anche come un tentativo di non ripetere un presunto errore sull’Ucraina: se gli autocrati come Putin e Xi capiscono solo i rapporti di forze e rispettano solo il linguaggio della potenza militare – questa è la tesi – se Biden avesse lanciato un preciso altolà sulle conseguenze di un’invasione dell’Ucraina forse Putin ci avrebbe ripensato.
Xi Jinping. Che Taiwan sia parte della Repubblica Popolare, che questa «provincia ribelle» vada riportata sotto la piena sovranità e giurisdizione del governo di Pechino, è dottrina ufficiale della Repubblica Popolare cinese dalla sua fondazione nel 1949 ad opera di Mao Zedong. In questo Xi si situa nella perfetta continuità dei suoi predecessori. Però un cambiamento di tono e di insistenza è avvenuto negli ultimi anni. Il nazionalismo è tornato ad essere un collante ideologico fondamentale da quando Xi Jinping ha preso il potere nel 2012. Taiwan ricorre regolarmente nei suoi discorsi, la riunificazione è diventata una questione di prestigio e di orgoglio patriottico. La protezione dell’America a Taiwan viene equiparata al «secolo delle umiliazioni», l’Ottocento, quando la Gran Bretagna sconfisse la Cina nelle Guerre dell’Oppio e vi stabilì delle concessioni (Hong Kong, Canton, Shanghai). Le prove di forza ci sono state anche in passato, le «esercitazioni per un’invasione» sono state molteplici, la più recente su vasta scala fu nel 1995 con una serie di lanci missilistici nelle acque di Taiwan. Più passa il tempo, più i rapporti di forze militari si evolvono in favore dell’Esercito Popolare di Liberazione, il nome delle forze armate di Pechino. Gli stessi capi del Pentagono ammettono che una difesa dell’isola diventerà sempre più difficile, o votata alla sconfitta. Xi Jinping d’altronde si è precluso una soluzione pacifica, cioè una riunificazione concordata e consensuale, visto il modo in cui ha «risolto» l’anomalia di Hong Kong: distruggendo lo Stato di diritto e le libertà, normalizzando l’isola (ex colonia britannica) sotto il tallone della repressione poliziesca cinese. Perché lo ha fatto, anziché usare l’autonomia di Hong Kong come una vetrina rassicurante per il resto del mondo, in base al modello «una nazione, due sistemi» che era stato promesso da Deng Xiaoping nel 1997 ai cittadini dell’ex colonia britannica? Perché Xi è un vero leninista, il primato del partito comunista è un fondamento della sua visione politica. Più passa il tempo meno risulta verosimile che Taiwan possa essere unificata con la madrepatria conservando le proprie istituzioni democratiche e le proprie libertà. Quando ha ammonito Biden – «chi gioca col fuoco finirà bruciato» – Xi ha dato il via ad un’escalation di minacce verbali da parte dei suoi sottoposti sia civili sia militari che hanno fatto temere reazioni spaventose al viaggio della Pelosi. In questo caso anche Xi sembra essersi messo in un angolo, si è precluso spazi di manovra e di flessibilità, se non vuole perdere la faccia dovrà dare corso alle minacce. Mancano solo due mesi all’assemblea che dovrà ratificare il suo terzo mandato, di fatto incoronandolo come un «imperatore a vita», e non è questo il momento in cui il presidente cinese può permettersi una figuraccia.
Tsai Ing-wen a 66 anni è la prima donna eletta alla presidenza di Taiwan. Appartiene a quel partito democratico-progressista che è il più distante ideologicamente dall’idea dell’appartenenza alla Cina e quindi della riunificazione. È il partito emerso da protagonista dalla democratizzazione dell’isola: inizialmente dopo il 1949 Taipei ebbe un regime autoritario di destra, il partito democratico fu fondato nel 1986, un anno prima che venisse abrogata la legge marziale dando il via alle riforme liberali. Il sangue freddo con cui finora la Tsai e la sua opinione pubblica hanno accolto l’escalation della tensione si spiega forse con una certa assuefazione: le minacce di Pechino sono costanti, così come gli sconfinamenti di cacciabombardieri cinesi sui cieli dell’isola. Non si può escludere che l’assuefazione porti a sottovalutare il pericolo (come accadde a Zelensky di fronte agli avvertimenti dell’intelligence americana e inglese sui preparativi dell’invasione russa). La presidente taiwanese, e la maggioranza del suo popolo, sembrano rassegnati all’anomalia per cui la riunificazione con la Cina è terribilmente indesiderabile, ma l’autonomia piena (cioè una dichiarazione d’indipendenza) è impossibile perché rappresenta una «linea rossa» da non varcare agli occhi di Pechino. Peraltro anche i taiwanesi sono reduci da un periodo in cui s’illusero – come tanti americani ed europei – che la Repubblica Popolare si potesse migliorare attraverso il business. All’inizio della transizione della Cina verso l’economia di mercato, gli imprenditori taiwanesi furono tra gli investitori più attivi nella madrepatria e tuttora le imprese taiwanesi sulla terraferma sono una realtà importante. Ma i legami di business non hanno né favorito una democratizzazione della Repubblica Popolare né addolcito il linguaggio bellicoso di Xi verso Taiwan. La popolazione taiwanese nel frattempo si è «de-sinizzata» nel senso che ha sviluppato un’identità culturale propria (per esempio con una notevole fioritura in campo artistico) e soprattutto le giovani generazioni si sentono molto diverse dai cinesi. Taiwan è l’unica democrazia cinese al mondo e la sua diversità è stata sottolineata durante la pandemia: ha saputo contenere il contagio, il bilancio di vittime è rimasto a livelli microscopici rispetto all’Occidente, ma non ha ottenuto questo risultato con i metodi autoritari di Xi, bensì affidandosi alla disciplina spontanea, al rispetto delle regole, al senso di dovere della comunità che sono tipici della cultura confuciana (e hanno funzionato anche in Giappone, Corea del Sud). L’Occidente ha aperto gli occhi di recente sulla sua dipendenza da Taiwan, dove si produce il 60% di tutti i semiconduttori mondiali. Lo status di superpotenza tecnologica però non rappresenta una garanzia contro un’invasione cinese, anzi. Di recente si è parlato di una «strategia del porcospino», come lezione che Taiwan avrebbe imparato dall’Ucraina: dotarsi di armamenti studiati su misura per rendere dolorosa e costosa un’invasione, anche se l’aggressore è molto più grosso e potente.
2 agosto 2022, 15:35 – modifica il 2 agosto 2022 | 15:35
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, 2022-08-02 13:38:00, L’ultima visita sull’isola di un presidente della Camera Usa risale al 1997. Pechino ha sempre reagito duramente a quelle che considera «interferenze» in una «provincia ribelle», Federico Rampini