Napoli è un’isola gialla persa nel mare di azzurro che ricopre quasi tutto il Paese. E su quest’isola il fortilizio dei Cinque Stelle resiste a tutti i venti. Poco importa che soffino da destra o da sinistra: l’edificio regge, anche bene. Ci piaccia o meno, le elezioni di domenica scorsa fanno della provincia vesuviana un caso nazionale: nel resto d’Italia l’affermazione del centrodestra è netta, inequivocabile, mentre qui si assesta su cifre più ordinarie, pur registrando incrementi sostanziosi. Nulla, però, che possa arginare il trionfo di Giuseppe Conte, un successo reso ancora più plastico dal tracollo di Luigi Di Maio che, nel suo collegio, viene largamente superato dall’ex collega di partito Sergio Costa e scaraventato fuori dal Parlamento. Ma non basta. Il candidato del Movimento «straccia» anche Mara Carfagna, responsabile del Mezzogiorno nel governo Draghi, traslocata nelle fila di Azione-Italia Viva. Risultato: un ex ministro, da solo, batte ben due ministri ancora in carica. Attenzione, questo è il caso più clamoroso perché potremmo raccontare anche della «sconosciuta» Ada Lopreiato, un’avvocatessa prestata alla politica per la prima volta, che sconfigge due big del calibro di Valeria Valente (centrosinistra, presidente della commissione parlamentare sui femminicidi) e Stefano Caldoro (centrodestra, ex ministro nei governi Berlusconi ed ex governatore della Campania). Insomma, le storie sono tante. Troppe per essere liquidate con la facile spiegazione di una metropoli ripiegata su sé stessa a difesa del reddito di cittadinanza. C’è qualcosa che va oltre, molto più in profondità di una misura finanziaria rimasta monca, priva di qualunque effetto sulle politiche attive del lavoro, sprovvista dei necessari meccanismi di controllo, divenuta esclusivamente assistenzialista, ma che ha pur sempre arginato una crisi sociale altrimenti devastante. C’è che questa, almeno, è stata una risposta alle disuguaglianze crescenti nell’intero Mezzogiorno, all’impoverimento dei ceti medi che la sinistra riformista ha soltanto finto di vedere e mai assimilato davvero, convinta ormai che il mondo cominci e finisca nei salotti dei quartieri bene. Posso sbagliare, però non ricordo un solo partito che abbia elaborato una proposta diversa, capace di convertire la presunta «elemosina» in un percorso produttivo: bene o male, in forme più o meno sfumate, sono venuti tutti a difenderla annusando la rimonta dei Cinque Stelle nel Sud. L’unica che non ha chinato il capo, e gliene va dato merito, è stata proprio Giorgia Meloni, la quale anche a Bagnoli ha ribadito la sua intenzione di cancellare il Reddito, pagando senza dubbio un pedaggio in termini di voti. La verità è che Conte, grazie pure a un’abile operazione di marketing elettorale, ha saputo regalare un simbolo «politico» al quale un pezzo d’Italia, che già affonda entrambi i piedi nell’emergenza sociale prossima ventura, si è aggrappata. E, come ulteriore addendo alla vittoria, è riuscito ad attrarre frange consistenti di quella sinistra orfana di un Pd allo sbando. Gli altri cosa hanno offerto a chi non abita tra Chiaia e Posillipo? Poco, molto poco: forse soltanto gli sprazzi d’illuminismo contenuti nel programma del Terzo Polo — capitoli tuttavia indigesti per chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena — e il comprensibile entusiasmo di Fratelli d’Italia. Del resto, che la politica qui sia scomparsa più che altrove lo denunciamo da tempo: perfino l’amministrazione comunale, guidata da Gaetano Manfredi, dopo un anno di vita somiglia a un comitato di esperti (docenti universitari nella stragrande maggioranza) che vive in un mondo tutto suo, un rassemblement tecnocratico che non ha innervato Napoli di quel dialogo indispensabile a creare un’identificazione tra cittadini e istituzioni. L’abnorme astensionismo (in città siamo al 50%) suggerisce un cenno di reazione oppure si punta a liquidarlo banalmente con la scusa del temporale di fine estate? Insomma, soltanto osservando la scena generale possiamo cogliere gli ingredienti della ricetta vincente targata M5S. È semplice: lo spaesamento ti spinge a cercare riparo nei luoghi che già conosci, a conservare quello che possiedi e rischi di perdere, ad apprezzare chi ti dà (o sembra darti) ascolto. Vogliamo chiamarlo populismo? D’accordo. Ma cosa c’era di alternativo sul «mercato» elettorale? Il pessimo risultato del Pd rappresenta la logica conseguenza di un declino politico forse irrimediabile. Potrei dilungarmi sul partito delle Ztl, sulla sostanziale indifferenza verso vecchie e nuove dinamiche del mondo del lavoro, sull’autismo sociale di una forza accucciata nei salotti e assente dalle strade, sull’autoconservazione di gruppi dirigenti dediti esclusivamente ad assicurare la propria sopravvivenza (anche economica), ma preferisco soffermarmi sulla sua strategia nel Mezzogiorno. Enrico Letta, pur sapendo di andare incontro a una sconfitta, ha scelto di stringere un accordo con Vincenzo De Luca — cedendogli una parte rilevante dei collegi campani — invece di approfittare dell’occasione per dare un segnale di discontinuità con i metodi autocratici del governatore. L’esito di tale patto oggi è sotto gli occhi di tutti: De Luca porta a casa l’elezione del figlio Piero, l’unica cosa che davvero gli interessasse, dopo averlo messo al calduccio nelle liste proporzionali. Il resto della competizione, per i Democratici, assume i contorni di una catastrofe. Il governatore incassa una sonora batosta nella «sua» Salerno, conquistata dalla destra di Edmondo Cirielli, storico avversario, e fra i tanti lascia sul campo Fulvio Bonavitacola, vice presidente della Regione, e Luca Cascone, uno dei suoi più stretti collaboratori a Palazzo Santa Lucia. Perfino i Cinque Stelle gli assestano un ceffone nel contado di famiglia conquistando un seggio. Chi conosce le storie del Pd campano sa bene che De Luca porta fieno soltanto a sé stesso, perché il consenso (sempre minore) del quale dispone è fondato sull’elargizione delle risorse pubbliche con criteri privatistici. Come ha potuto immaginare Letta che, al contrario, gli mettesse a disposizione un bacino di voti d’opinione che non ha mai avuto, se non all’inizio della pandemia? È plausibile che la disfatta di domenica annunci il requiem politico del governatore, l’addio ai sogni di un terzo mandato o di una successione familiare. Tuttavia il madornale errore commesso dalla leadership nazionale e locale del Pd mostra nitidamente l’autoreferenzialità e il conservatorismo di un partito che gli elettori, a torto o a ragione, considerano più simile a un blocco di potere che a un’organizzazione politica. Appare evidente che il cammino dei riformisti è tutto in salita e la cima molto lontana. Ma, poiché la democrazia non è un’opzione, comincia una nuova stagione che la libera stampa e l’informazione tutta dovranno seguire con estrema attenzione e, allo stesso modo, senza alcun pregiudizio. Il Corriere del Mezzogiorno farà la sua parte come, credo, abbia sempre fatto in questi anni. Non è una giornata triste per l’Italia, come hanno affermato Enrico Letta e Debora Serracchiani, perché la maggioranza parlamentare è frutto di un voto democratico, non di un sopruso. Basterebbe cominciare da qui per restituire alla politica il suo posto. 27 settembre 2022 | 07:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-27 12:39:00, Napoli è un’isola gialla persa nel mare di azzurro che ricopre quasi tutto il Paese. E su quest’isola il fortilizio dei Cinque Stelle resiste a tutti i venti. Poco importa che soffino da destra o da sinistra: l’edificio regge, anche bene. Ci piaccia o meno, le elezioni di domenica scorsa fanno della provincia vesuviana un caso nazionale: nel resto d’Italia l’affermazione del centrodestra è netta, inequivocabile, mentre qui si assesta su cifre più ordinarie, pur registrando incrementi sostanziosi. Nulla, però, che possa arginare il trionfo di Giuseppe Conte, un successo reso ancora più plastico dal tracollo di Luigi Di Maio che, nel suo collegio, viene largamente superato dall’ex collega di partito Sergio Costa e scaraventato fuori dal Parlamento. Ma non basta. Il candidato del Movimento «straccia» anche Mara Carfagna, responsabile del Mezzogiorno nel governo Draghi, traslocata nelle fila di Azione-Italia Viva. Risultato: un ex ministro, da solo, batte ben due ministri ancora in carica. Attenzione, questo è il caso più clamoroso perché potremmo raccontare anche della «sconosciuta» Ada Lopreiato, un’avvocatessa prestata alla politica per la prima volta, che sconfigge due big del calibro di Valeria Valente (centrosinistra, presidente della commissione parlamentare sui femminicidi) e Stefano Caldoro (centrodestra, ex ministro nei governi Berlusconi ed ex governatore della Campania). Insomma, le storie sono tante. Troppe per essere liquidate con la facile spiegazione di una metropoli ripiegata su sé stessa a difesa del reddito di cittadinanza. C’è qualcosa che va oltre, molto più in profondità di una misura finanziaria rimasta monca, priva di qualunque effetto sulle politiche attive del lavoro, sprovvista dei necessari meccanismi di controllo, divenuta esclusivamente assistenzialista, ma che ha pur sempre arginato una crisi sociale altrimenti devastante. C’è che questa, almeno, è stata una risposta alle disuguaglianze crescenti nell’intero Mezzogiorno, all’impoverimento dei ceti medi che la sinistra riformista ha soltanto finto di vedere e mai assimilato davvero, convinta ormai che il mondo cominci e finisca nei salotti dei quartieri bene. Posso sbagliare, però non ricordo un solo partito che abbia elaborato una proposta diversa, capace di convertire la presunta «elemosina» in un percorso produttivo: bene o male, in forme più o meno sfumate, sono venuti tutti a difenderla annusando la rimonta dei Cinque Stelle nel Sud. L’unica che non ha chinato il capo, e gliene va dato merito, è stata proprio Giorgia Meloni, la quale anche a Bagnoli ha ribadito la sua intenzione di cancellare il Reddito, pagando senza dubbio un pedaggio in termini di voti. La verità è che Conte, grazie pure a un’abile operazione di marketing elettorale, ha saputo regalare un simbolo «politico» al quale un pezzo d’Italia, che già affonda entrambi i piedi nell’emergenza sociale prossima ventura, si è aggrappata. E, come ulteriore addendo alla vittoria, è riuscito ad attrarre frange consistenti di quella sinistra orfana di un Pd allo sbando. Gli altri cosa hanno offerto a chi non abita tra Chiaia e Posillipo? Poco, molto poco: forse soltanto gli sprazzi d’illuminismo contenuti nel programma del Terzo Polo — capitoli tuttavia indigesti per chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena — e il comprensibile entusiasmo di Fratelli d’Italia. Del resto, che la politica qui sia scomparsa più che altrove lo denunciamo da tempo: perfino l’amministrazione comunale, guidata da Gaetano Manfredi, dopo un anno di vita somiglia a un comitato di esperti (docenti universitari nella stragrande maggioranza) che vive in un mondo tutto suo, un rassemblement tecnocratico che non ha innervato Napoli di quel dialogo indispensabile a creare un’identificazione tra cittadini e istituzioni. L’abnorme astensionismo (in città siamo al 50%) suggerisce un cenno di reazione oppure si punta a liquidarlo banalmente con la scusa del temporale di fine estate? Insomma, soltanto osservando la scena generale possiamo cogliere gli ingredienti della ricetta vincente targata M5S. È semplice: lo spaesamento ti spinge a cercare riparo nei luoghi che già conosci, a conservare quello che possiedi e rischi di perdere, ad apprezzare chi ti dà (o sembra darti) ascolto. Vogliamo chiamarlo populismo? D’accordo. Ma cosa c’era di alternativo sul «mercato» elettorale? Il pessimo risultato del Pd rappresenta la logica conseguenza di un declino politico forse irrimediabile. Potrei dilungarmi sul partito delle Ztl, sulla sostanziale indifferenza verso vecchie e nuove dinamiche del mondo del lavoro, sull’autismo sociale di una forza accucciata nei salotti e assente dalle strade, sull’autoconservazione di gruppi dirigenti dediti esclusivamente ad assicurare la propria sopravvivenza (anche economica), ma preferisco soffermarmi sulla sua strategia nel Mezzogiorno. Enrico Letta, pur sapendo di andare incontro a una sconfitta, ha scelto di stringere un accordo con Vincenzo De Luca — cedendogli una parte rilevante dei collegi campani — invece di approfittare dell’occasione per dare un segnale di discontinuità con i metodi autocratici del governatore. L’esito di tale patto oggi è sotto gli occhi di tutti: De Luca porta a casa l’elezione del figlio Piero, l’unica cosa che davvero gli interessasse, dopo averlo messo al calduccio nelle liste proporzionali. Il resto della competizione, per i Democratici, assume i contorni di una catastrofe. Il governatore incassa una sonora batosta nella «sua» Salerno, conquistata dalla destra di Edmondo Cirielli, storico avversario, e fra i tanti lascia sul campo Fulvio Bonavitacola, vice presidente della Regione, e Luca Cascone, uno dei suoi più stretti collaboratori a Palazzo Santa Lucia. Perfino i Cinque Stelle gli assestano un ceffone nel contado di famiglia conquistando un seggio. Chi conosce le storie del Pd campano sa bene che De Luca porta fieno soltanto a sé stesso, perché il consenso (sempre minore) del quale dispone è fondato sull’elargizione delle risorse pubbliche con criteri privatistici. Come ha potuto immaginare Letta che, al contrario, gli mettesse a disposizione un bacino di voti d’opinione che non ha mai avuto, se non all’inizio della pandemia? È plausibile che la disfatta di domenica annunci il requiem politico del governatore, l’addio ai sogni di un terzo mandato o di una successione familiare. Tuttavia il madornale errore commesso dalla leadership nazionale e locale del Pd mostra nitidamente l’autoreferenzialità e il conservatorismo di un partito che gli elettori, a torto o a ragione, considerano più simile a un blocco di potere che a un’organizzazione politica. Appare evidente che il cammino dei riformisti è tutto in salita e la cima molto lontana. Ma, poiché la democrazia non è un’opzione, comincia una nuova stagione che la libera stampa e l’informazione tutta dovranno seguire con estrema attenzione e, allo stesso modo, senza alcun pregiudizio. Il Corriere del Mezzogiorno farà la sua parte come, credo, abbia sempre fatto in questi anni. Non è una giornata triste per l’Italia, come hanno affermato Enrico Letta e Debora Serracchiani, perché la maggioranza parlamentare è frutto di un voto democratico, non di un sopruso. Basterebbe cominciare da qui per restituire alla politica il suo posto. 27 settembre 2022 | 07:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,