Natascia Maesi, per la prima volta una donna eletta presidente alla guida di Arcigay

Natascia Maesi, per la prima volta una donna eletta presidente alla guida di Arcigay

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di Redazione Online

«Da oggi, per quattro anni, sarò LA presidente di Arcigay- ha detto la giornalista 45 enne originaria di Caserta, che vive a Siena – E sottolineo il LA, a marcare la differenza profonda tra leadership femminile e leadership femminista»

Natascia Maesi, giornalista 45enne, «felicemente single», nata a Caserta e laureata in filosofia a Napoli, è la prima donna eletta presidente di Arcigay al XVII Congresso nazionale che si è svolto a Latina. Confermato Gabriele Piazzoni, 38 anni di Crema, come segretario. «Sono molto onorata del ruolo di cui l’associazione oggi mi investe e che è l’esito di un percorso che viene da lontano e che coinvolge numerose attiviste», ha dichiarato Maesi, che vive a Siena, dove si occupa di uffici stampa e comunicazione. Maesi mette al primo punto della `to do list´ l’impegno contro la violenza che subiscono le donne e la comunità Lgbtqia+ perché è «una violenza che in tutti e due i casi ha una matrice patriarcale:colpisce le donne quando non si conformano a certe aspettative, così come colpisce gli uomini che non si conformano al modello del machismo». Poi rimettere «al centro la battaglia per la piena applicazione della legge 194, l’aborto libero e gratuito riguarda anche le donne della nostra comunità». Da portare avanti, subito, anche «il tema dell’autodeterminazione – prosegue la presidente di Arcigay – con il superamento della legge 164 sulla transizione di genere, occorre togliere l’obbligo di percorsi psicologici, e poi è necessario che sia adottata la ”carriera alias” sui posti di lavoro, a scuola, nella pubblica amministrazione». Sui figli delle famiglie arcobaleno, Maesi ha l’obiettivo di farli dichiarare figli al momento della nascita e non al termine di lunghi e incerti percorsi affidati agli uffici anagrafici e alle diverse ”sensibilità“dei sindaci.

«Per quattro anni, sarò la presidente di Arcigay». E sottolinea il la, «a marcare la differenza profonda tra leadership femminile e leadership femminista» .

Specificare l’articolo determinativo al femminile è stata una scelta contro Meloni?

«No, una scelta per le donne. Ho voluto dare anche un segnale, rispondere alla provocazione: non trovo che il suo sia stato un esercizio di autodeterminazione, non è una persona che ha identità di genere non conforme, non sta facendo una scelta linguistica per sentirsi rappresentata, ma sta attuando la cancellazione del femminile. Significa fregarsene di anni di lotte femministe, per cui quello che ho voluto fare è un atto politico, in controtendenza rispetto al suo atto politico. Se io faccio passare l’idea che per valere come un uomo devo chiamarmi come un uomo, non sto realizzando una eguaglianza, sto dicendo che le donne per fare upgrade sociale, per accreditarsi, devono agire come gli uomini, mettere in pratica le stesse pratiche muscolari. Le parole sono potenti, creano immaginari e significati».

È la prima donna anche lei a rivestire questo incarico, c’erano pregiudizi all’idea che una donna potesse ricoprire il ruolo di presidente dell’Arcigay?

«No, non c’è ragione specifica, sicuramente non pregiudizio. Ci siamo sempre state e abbiamo sempre lavorato insieme. Ma è cambiata la sensibilità sulla centralità di certi temi, che in questo momento storico diventano dominanti. Parlo soprattutto dei temi femministi e che sono diventati parte del nostro quotidiano, come la violenza sui generi, frutto di una cultura patriarcale che colpisce tutti, noi donne e gli uomini femminilizzati e discriminati. Non che prima certi temi fossero secondari, ma non c’era la stessa consapevolezza del fatto che dovessero essere utilizzati come “portabandiera”, per sfondare un po’ il muro di gomma che ci troviamo di fronte. In questo momento sono attacco i diritti delle donne, e non possiamo ignorare che questo abbia a che fare con la nostra comunità : il diritto all’aborto ad esempio riguarda anche noi. Io stessa ho abortito e l’ho dichiarato pubblicamente, rivendicando la mia scelta».

Crede che la legge per il diritto all’aborto verrà attaccata?

«No, la mia sensazione è che questo governo proverà ad erodere alcuni diritti, lavorando al fianco, all’interno, ma senza metterla in discussione in maniera frontale, altrimenti rischia che il Paese scenda in piazza. Ci sono già avvisaglie che potrebbero depotenziarla: sappiamo che l’obiezione di coscienza è uno strumento, così come gli sportelli Pro- vita negli ospedali. Ma ce ne sono altri, come la proposta Gasparri. Riconoscere i diritti del nascituro non alla nascita, ma già nella sua dimensione di feto, significa esporre le donne a dei potenziali processi».

È pentita di non aver avuto quel figlio?

«No, non volevo essere madre quando la società me lo chiedeva, ma non escludo che nella vita potrebbe capitarmi di essere genitrice. Forse per via dell’età non potrò esserlo più biologica, ma le madri sociali hanno lo stesso valore delle madri reali. Ma c’è un problema anche su questo, un’aspettativa sociale su di noi che è molto prescrittiva. Lo sguardo giudicante l’ho sentito, sia allora che quando ho manifestato le mie scelte».

Vive ancora episodi di discriminazione?

«Sì, vivo ancora episodi di lesbofobia, sulla mia vita privata, anche se sono molto diversi. Quando ero giovane e avevo venti anni, vivevo nella paura, ascoltavo le battute e mi ferivano. In questi anni la società è molto cambiata, per me è stato uno scudo protettivo spendermi come attivista facendo sì che questo orgoglio fosse un punto di forza. Ma ciò non toglier che ora ci sono meccanismi più sottili, piccoli discorsi sull’ostentazione, la messa in discussione della capacità genitoriali, cose così. Ma temo che ora passare dalle parole ai fatti sia più semplice, il rischio è che venga sdoganata la violenza della strada, perché temo che da una violenza istituzionale agita da chi ci rappresenta, ci si senta autorizzati poi a metterla in pratica».

Il ddl Zan vi avrebbe difeso?

«Non rispondeva pienamente alle rivendicazioni, era depotenziata come legge rispetto alle possibilità, ma sicuramente era una proposta di sintesi, un avanzamento importante e necessario, dopo 30 anni, e dopo che l’approvazione delle leggi unioni civili era l’unico punto di avanzamento. Anche perché il ddl Zan era una legge che provava a fare cultura, non si limitava a punire, ma dava degli spunti, chiedeva anche alle istituzioni di posizionarsi rispetto a certi temi, prevedeva un lavoro educativo all’interno delle scuole».

Chiederebbe al governo di riprenderlo?

«Dal nostro punto di vista è necessaria una legge contro le discriminazioni basate su sesso e genere, orientamento sessuale e disabilità. Possiamo ripartire dal testo Zan o pensarne uno nuovo, l’ importante è che si faccia. Se lo facesse questo governo sarebbe una sorpresa felice, ma temiamo piuttosto che proveranno a mettere ostacoli ad eventuali tentativi dell’opposizione».

A proposito dei partiti, da chi vi sentite rappresentati?

«Noi abbiamo avuto una cartina di tornasole, rappresentata dalla piattaforma La strada dei diritti, a cui abbiamo aderito come Arcigay, in cui sottoponevamo ai partiti in lizza in campagna elettorale rivendicazioni molto dettagliate, dai matrimoni egualitari a una legge contro le terapie riparative, passando per il riconoscimento della genitorialità e il superamento della legge 164. La risposta non è stata timida: di più».

Renzi, portando a casa le unioni civili, ha fatto meglio di Letta?

«Non la direi così. Però a parte una adesione abbastanza generalizzata sui matrimoni egualitari, non c’è stato un impegno preciso. La mia sensazione è che ci sia molta preoccupazione, perché anche i partiti di sinistra vivono contraddizioni molto forti, non posizioni unitarie, e questa cosa l’abbiamo sempre pagata, perché non c’erano i numeri per sostenere queste proposte. C’è sempre una sorta di imbarazzo nei confronti dell’elettorato, ma mi sembra una preoccupazione eccessiva, rispetto a un Paese reale che è molto più avanti. Noi siamo tutti: i panettieri, i colleghi, gli artisti, gli sportivi. Certo, c’è una parte omofoba, ma la stragrande maggioranza del paese, o non ha opinione, oppure sostanzialmente non ha mai intercettato un lavoro educativo e di informazione. Per cui se gli si spiega che estendere i diritti non toglie niente a nessuno, l’85% è in grado di capirlo e accettarlo, e lo si sottrae ad una retorica, un escamotage comunicativo che dobbiamo lasciare alle destre del Paese. Se mi faccio chiamare in un modo piuttosto che un altro a scuola, cosa cambia per gli altri compagni? Se ho un badge che riporta un’identità differente dal mio genere anagrafico, cosa comporta per le altre persone? Non siamo una minaccia sociale, né alla specie, eppure si fornisce continuamente questa narrazione, che può diventare molto pericolosa».

La carriera alias però, come dimostra la vicenda dello studente del liceo Cavour, è ancora lontana…

«Eppure io credo che ovunque bisognerebbe introdurre la carriera alias, non solo nelle scuole. Potrebbe essere un dispositivo, a tutti i livelli, negli ospedali, sui posti di lavoro, nello sport agonistico. Per ora c’è una iniziativa della Uisp, quindi solo a livello dilettantistico, che permette a chi ha una identità di genere diversa da quella della nascita, di accedere a percorsi di piena cittadinanza, di riconoscibilità sociale. Perché chiariamolo una volta per tutte: l’alias non ha niente a che fare con i percorsi personali, ma con la tua integrazione sociale, altrimenti le persone sono costrette a coming out violenti e forzati, ed essere sempre sottoposte alla lotteria dell’accettazione e dell’accoglienza. Invece dovremmo normalizzare certe esistenze, considerarle all’ordine del giorno».

Ci sono ancora tanti passi da fare. Lorenzo Fontana, presidente della Camera, diceva che le famiglie arcobaleno non esistono.

«Sì, ma peggio è il messaggio della schifezza: associare il disgusto alla vita delle persone, alle loro relazioni, è grave. Non è solo dire: questa scelta non la farei mai, ma il problema è creare un immaginario, far pensare che siamo persone deviate, perverse, e questo è inaccettabile».

Quali sono gli ambiti dove è più difficile fare coming out?

«Proprio lo sport e la scuola: il momento dello spogliatoio è complicato, l’agonismo è considerato inaccessibile dalle persone trans. E nella comunità scolastica per educatori e educatrici non è facile farsi riconoscere, la storia di Cloe lo dimostra. Se non adeguiamo gli spazi, il linguaggio, se continuiamo a considerare l’identità di genere un feticcio ideologico, è difficile che il coming out possa avvenire in maniera serena. Per fortuna in famiglia è più sdoganato. Ma anche farsi riconoscere il proprio percorso è complicato. Anche costringere queste persone ad anni di terapia, alla verifica anche violenta della propria condizione personale, non è giusto: perché aspettare due anni di percorso psicologico per potersi vedere riconosciuta la piena cittadinanza e accedere alla terapia ormonale, agli interventi chirurgici? Bisogna assumersi la responsabilità di togliere gli ostacoli».

Sarebbe utile chiedere il coming out in Parlamento, come suggeriva Fabrizio Marrazzo a inizio legislatura?

«In altri Paesi è una pratica comune, per sdoganare l’ipocrisia dei politici. Ma io la considero violenta, penso che piuttosto dobbiamo favorire l’emersione del sommerso»

In che senso?

«Quando ci dicono che l’identità di genere è un capriccio, una moda, la verità è che cercano di contrastare le proprie paure ataviche, ad esempio la paura del maschio alfa di svegliarsi un giorno gay. Non è che uno si sveglia una mattina con la sensazione di avere un altro corpo, i percorsi di affermazioni sono lunghi, e articolati, ci sono mille fasi e negazioni, è surreale che noi dobbiamo subire una discriminazione sulla base di queste paure sociali. Chi ha un desiderio dovrebbe poterlo seguire per essere felice, non pensare a cosa potrebbe perdere, cosa cambierebbe nella propria vita. Come ha detto Porpora Marcasciano, il problema non è essere nati nel corpo sbagliato, ma in un mondo sbagliato, è lo sguardo che abbiamo su questi temi, che poi appartengono alla vita dai greci in poi, a modificare la percezione. Piuttosto bisognerebbe spiegare il consenso. Quando dico che vorrei adottare un approccio radicale significa che vorrei andare alla radice del problema: hanno paura che andiamo a parlare nelle scuole non perché siamo gay, ma perché spieghiamo agli studenti che si costruiscono relazioni su rapporti di potere sbilanciati, non basati sulla reciprocità, raccontiamo al 15enne che non può disporre del corpo della sua compagna».

Quali sono le urgenze su cui lavorare?

«Il riconoscimento alla nascita dei figli di famiglie monogenitoriali, che non dovrebbe essere un tema divisivo. Ma anche la sierofobia: abbiamo iniziato a lavorare a una nuova legge sull’hiv, con una campagna per cercare di rendere accessibile la PrEP (un protocollo medico per proteggersi dall’infezione da HIV, ndr) che ha un costo molto elevato. Capiamo che ci sono temi, come l’accesso alla gestazione per altri, dove c’è sostanziale differenziazione di posizionamento, per cui su questo tema non abbiamo l’urgenza di trovare una soluzione».

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14 novembre 2022 (modifica il 14 novembre 2022 | 12:18)

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, 2022-11-14 11:18:00, «Da oggi, per quattro anni, sarò LA presidente di Arcigay- ha detto la giornalista 45 enne originaria di Caserta, che vive a Siena – E sottolineo il LA, a marcare la differenza profonda tra leadership femminile e leadership femminista», Redazione Online

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