editoriale Mezzogiorno, 22 aprile 2022 – 08:22 Altro che esempio per l’Italia intera: siamo agli ultimi posti in molte graduatorie e primi in nessuna di Enzo d’Errico Alla fine, come sempre, i numeri ci inchiodano alla verità. Hai voglia a raccontare storie, infarcendo i soliloqui di retorica «suprematista»: la realtà, purtroppo, è più coriacea delle parole. Così, nonostante la sbornia di sovranismo regionale che quotidianamente ci annebbia la mente, una mattina ti ritrovi a leggere i dati dell’ultimo rapporto Istat e scopri che la Campania colleziona sì un bel po’ di record ma in negativo. Altro che esempio per l’Italia intera: siamo agli ultimi posti in molte graduatorie e primi in nessuna. Anzi, mi correggo: svettiamo nella classifica degli abusi edilizi, un marchio di fabbrica che difendiamo con i denti. Per il resto, moriamo prima degli altri, indossiamo la maglia nera nel passaggio degli studenti dal liceo all’università, abbiamo un tasso d’occupazione che mette i brividi e una formazione professionale da neolitico. Potremmo continuare a lungo ma già quest’elenco basta e avanza a sbriciolare l’architettura delle bugie gradasse in cui siamo imprigionati ormai da anni. Il malgoverno ha un metro di misura che oggi le percentuali dell’Istat rendono inoppugnabile: siamo dinanzi al fallimento di una giunta regionale che bada esclusivamente a perpetuare la propria esistenza in vita, oliando il consenso elettorale attraverso l’elargizione discrezionale dei fondi pubblici e l’assorbimento di settori (vedi alle voci trasporto pubblico, attività culturali e non solo) da trasformare poi in bacini di voto. Le cifre, che a differenza delle chiacchiere non mentono, ci scaraventano davanti a uno specchio che riflette l’immagine di una Campania incapace di rovesciare qualsiasi trend economico e sociale, vittima di una sostanziale inerzia amministrativa, ostaggio di una classe dirigente dedita ai propri interessi personali più che al bene comune. E non potrebbe essere altrimenti: i meccanismi di una democrazia liberale – a cominciare dalla dialettica tra maggioranza e opposizione, per finire al rispetto delle più elementari regole di convivenza civile – si inceppano quando la ruggine dell’autocrazia li corrode senza che nessuno provi a impedirlo. Lavoro, benessere, qualità della vita, non costituiscono variabili indipendenti: sono obiettivi che si raggiungono attraverso un’armonica collaborazione tra i diversi livelli istituzionali e non demolendo sistematicamente gli interlocutori nazionali. Il costante bisogno di creare un nemico, invece, è un tratto tipico dei sistemi illiberali che in tal modo occultano la loro inefficienza e mettono al riparo l’assetto di potere che hanno costruito. Naturalmente sarebbe facile indicare nel presidente Vincenzo De Luca l’unico artefice del disastro evidenziato dalla ricerca dell’Istat. Ma la logica del capro espiatorio, altro connotato ricorrente delle autocrazie, ha da sempre il fiato corto. Non c’è dubbio che il governatore esca a pezzi dal confronto – parola che esula dal suo vocabolario – con i fatti nudi e crudi. A voler essere benevoli (ma tanto, davvero tanto), gli oltre sette anni da lui trascorsi a Palazzo Santa Lucia ci consegnano una Campania pressocché identica al passato nei parametri dello sviluppo ma decisamente più arretrata sul versante del dibattito pubblico e del ruolo politico nazionale. Una regione, insomma, trasformata in un fortilizio privato, tirato su con il cemento di un esasperato localismo e di una grottesca mistificazione della realtà. Eppure, sebbene le graduatorie che pubblichiamo oggi rappresentino un irrevocabile capo d’accusa per De Luca e i suoi accoliti, nessuno può dirsi innocente. E non parliamo di una maggioranza politica (a cominciare dal Pd per finire ai nuovi adepti dei Cinque Stelle) evaporata nel nulla filosofico o di un’opposizione che mai si è sollevata dalla tomba della sconfitta elettorale, bensì di quella che un tempo veniva chiamata società civile, la quale ha assistito inerme alla demolizione dell’opinione pubblica (quasi che l’agonia del giornalismo fosse una questione di categoria e non il sintomo di un progressivo appannamento dei diritti individuali e degli apparati di controllo), oltre ad accettare spesso un posto a tavola in cambio della sua indifferenza. Potrei riassumere il tutto in una frase probabilmente sommaria ma di sicuro efficace: se la Campania è ridotta così, la colpa è dei campani. Tutti. Anche se, purtroppo, a pagare le spese di questo sfacelo sono i più deboli. Pensate ai ragazzi che non hanno i mezzi per proseguire fino in fondo il loro ciclo di studi, a quanti hanno perso l’impiego in una crisi che non è stata fronteggiata da alcuna politica industriale, alle donne che sono state risputate ai margini del mercato occupazionale, ai giovani artisti costretti a elemosinare lavoro in istituzioni culturali ridotte a luogo di mercimonio (vedi il caso Scabec), ai disabili senza uno straccio di servizio pubblico degno di questo nome. Possibile che non ci siamo mai accorti di quanto ci stava capitando? Possibile che, tranne poche voci (per lo più sbeffeggiate o insultate volgarmente), nessuno abbia mai avuto il coraggio civile di smascherare le finte narrazioni e denunciare la verità dei fatti? Abbiamo dovuto attendere che le tabelle dell’Istat ci mostrassero il pantano nel quale stiamo affondando. Ma presto dimenticheremo anche quelle. Confortati dall’ignoranza che dilaga intorno e ci contagia come un morbo, impedendoci di guardare oltre il piccolo mondo delle nostre convenienze. Quel piccolo mondo che ci ha resi complici di questo naufragio. Sudditi e non più cittadini. 22 aprile 2022 | 08:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-04-22 12:00:00, Altro che esempio per l’Italia intera: siamo agli ultimi posti in molte graduatorie e primi in nessuna,