“Professoressa, mia madre sta a letto, non si muove più, e io il pomeriggio devo stare con lei. Non riesco a pensare anche ai compiti. Io ho due fratellini da guardare. Mia madre e mio padre sono separati. Quando sto con mio padre mi porta sempre in giro e a volte non ho tempo di fare i compiti”. E ancora: “Professoressa, i miei genitori litigano in continuazione, mia madre è sempre nervosa, mi sgrida, urla, non riesco a concentrarmi sui compiti. Io amavo fare pattinaggio ma non posso più andare, perché abbiamo sempre tanti compiti e io ci tengo ad andare bene a scuola”. Un’altra studentessa scrive: “Professoressa, io gioco a calcio. Studio di notte, perché io al calcio non rinuncio, sono bravo, posso diventare qualcuno…”. Gli occhi si fanno lucidi, il ragazzo piange. La professoressa risponde. Con una domanda rivolta a tutti: “Perché pensate che tutti i ragazzi abbiano una stanza tutta per sé – Virginia Woolf vi dice niente? – due genitori sani, amorevoli e presenti, un tutor o precettore, del tempo libero e nessuna passione da seguire oltre allo studio scolastico, che già occupa metà della giornata? Perché non tenete conto delle differenze sociali, famigliari, ambientali, emotive, quando parlate di educazione sentimentale, pari opportunità e inclusione?”.
La professoressa è Arianna Fioravanti. Insegna Lettere ed è in servizio di ruolo in una scuola secondaria di primo grado della provincia di Tivoli. La professoressa Arianna è convinta che gli insegnanti non dovrebbero assegnare compiti a casa agli studenti. Poiché questa pratica non serve a nulla, dice. Perché è sbagliata, perché è ingiusta, perché è discriminatoria: non tutte le alunne e gli alunni godono delle medesime opportunità domestiche, non tutti hanno le stesse comodità, una cameretta dove lavorare e concentrarsi, la serenità familiare necessaria. Insomma, chi vuole approfondire lo faccia, ma agli altri non dev’essere imposto l’obbligo di studiare a casa: lo studio, l’approfondimento, il potenziamento, le esercitazioni, insomma, si fanno a scuola. E’ la scuola il luogo deputato per lo studio, non la propria abitazione.
“Mi rivolgo – insiste la professoressa Fioravanti – a tutti quelli che criticano il mio metodo didattico, perché non assegno compiti per casa, valutando il lavoro degli alunni per ciò che dimostrano a scuola e non per quello che fanno o hanno la possibilità di fare a casa. Lasciandoli liberi di occuparsi di altro, di non essere giudicati sulla base di condizioni di appartenenza, di seguire le loro inclinazioni individuali e di sognare”.
Ora che le vacanze natalizie sono alle porte il tema dei compiti da assegnare a casa per le vacanze diventa ancora più pressante. “Sono davvero felice quando i genitori dei miei alunni mi dicono di essere contenti del mio metodo di insegnamento – spiega la docente – Ma ancora di più sono felice quando mi raccontano di aver visto i loro figli fare una ricerca su Dante o averli sentiti parlare delle crociate durante tutto il tragitto per casa, senza alcuna richiesta esterna. Mi rende felice vedere i miei alunni di 12 anni distinguere un accento acuto da uno grave, cosa che a volte non sanno fare neppure i laureati. Il tutto senza mai dare nemmeno una riga da studiare per casa. Mi rende felice rendere felici nello studio, che non dovrebbe mai consistere in un’imposizione, perché lo studio ha reso felice me. E perché lo “studio felice”, fatto esclusivamente per il proprio bisogno di conoscenza, rende liberi pensatori.
La professoressa Arianna Fioravanti è pure autrice del libro-biografia “Una vita senza vita. Pirandello in cinquant’anni di lettere”, edito da Perrone editore, Premio internazionale Pergamena Pirandello 2017. “È stato il frutto del mio dottorato di ricerca”, precisa lei.
Professoressa Arianna Fioravanti, dunque lei non dà mai compiti per casa?
“Esattamente. In passato ho dato pochi compiti. Da quest’anno ho deciso di non darli più, mai”.
Ora che le vacanze di Natale si avvicinano il quesito diventa ancora più pressante…
“Non assegno compiti per le vacanze. Vacanza deriva da vacare: essere vuoto, libero”.
Perché lei non assegna compiti per casa?
“Per diversi motivi. Uno di questi riguarda le pari opportunità. Non tutti a casa hanno una stanza tutta per sé – Virginia Woolf docet – situazioni serene, silenzio, genitori presenti o insegnanti privati. Chi ha una buona situazione familiare è facilitato nel rendimento scolastico, in una scuola dove parte del lavoro viene svolta a casa e le valutazioni dipendono anche da questo. Chi vive situazioni familiari più problematiche si trova in una condizione di svantaggio rispetto ai compagni più fortunati. Nelle mie classi, e nelle classi di tutti, ci sono alunni che il pomeriggio devono badare ai fratelli più piccoli, qualcuno perfino a un genitore malato, oppure mi viene in mente il caso di una ragazza, figlia di genitori separati, il cui padre nei fine settimana la portava in giro impedendole così di fare i compiti. Potrei citare tantissimi casi. Mi limito a dire che i compiti per casa presuppongono una condizione di vita personale e familiare che non tutti hanno e sulla quale la scuola non può avere pretese. Inoltre, dopo sei ore di studio a scuola, caricare i ragazzi di altre ore di studio può essere svantaggioso dal punto di vista dello stress e quindi del rendimento. D’altronde, se il sistema scolastico basato sui compiti funzionasse non avremmo risultati così bassi, come mostrano anche le prove Invalsi. Per quanto riguarda l’italiano nelle classi terze della scuola secondaria di primo grado, dal 2018 al 2023 i risultati mostrano un calo. Quasi il 40 per cento degli alunni non raggiunge risultati adeguati alla soglia minima tracciata dalle Indicazioni nazionali. Anche prima del Covid – lockdown e DaD – gli studenti che non avevano raggiunto la soglia minima di accettabilità erano il 34 per cento nel 2018 e il 35 per cento nel 2019. Lasciare più di un terzo della classe in condizioni di non accettabilità è decisamente troppo. Per la matematica i risultati sono ancora più scoraggianti. Qui è il 44,2 per cento a presentare esiti non in linea con i risultati minimi previsti”.
I compiti secondo lei ostacolano le attività sportive e la vita sociale?
“Questo è un altro punto a sfavore dei compiti. L’attività sportiva è fondamentale per una sana crescita psicofisica. Così come sono essenziali gli svaghi, la vita sociale e se vogliamo anche l’ozio. Molti dei miei alunni hanno dovuto rinunciare allo sport, a momenti di creatività e di vita necessari al loro benessere mentale. Diversi ragazzi sono costretti a lasciare attività che consentirebbero lo sviluppo di attitudini personali, a causa di uno studio che spesso viene percepito come coercitivo e pedantesco. Questo crea un’idea negativa della scuola. La scuola deve invece avere nella formazione un ruolo positivo di sostegno e questo è possibile attraverso l’ascolto e il riconoscimento dei bisogni”.
Quali sono i risultati che ottiene dai suoi alunni?
“I risultati sono decisamente buoni. Sono migliorativi per tutti. Perché i compiti si svolgono in classe e tutti hanno la possibilità di apprendere, in uno spazio e in un tempo appositamente dedicati. Il mio metodo si basa sulla cooperazione, l’apprendimento di abilità sociali, il benessere, la pratica. Lavorano spesso in gruppo, si aiutano, si cimentano nel ruolo di insegnanti e chi ha più difficoltà si fa aiutare con piacere”.
I suoi studenti come reagiscono?
“I miei alunni sono sereni e motivati. Con me si aprono perché pensano che io sia in grado di capirli. Il mio obiettivo è quello di farli appassionare alla materia e di stimolarli alla riflessione critica. Sostenuti dall’insegnante, tutti imparano a prendere gli appunti e a processare le informazioni attraverso uno studio molto distante da quello mnemonico che spesso fanno a casa”.
Le famiglie come vedono questa cosa?
“In linea generale in modo molto positivo. Mi è capitato di ricevere richieste di chiarimento da parte di alcuni genitori delle classi prime. È normale, non sono abituati. Ma sono stati presto confortati dalle risposte e dai risultati. Sono pronta a cambiare sistema qualora mi si dimostrasse la fallibilità di questo metodo o l’esistenza di uno migliore. Naturalmente, ci sono sempre ampi margini di miglioramento, e il mio è un incessante lavoro di messa a punto”.
E’ davvero sufficiente l’attività in classe – senza dare compiti a casa – per raggiungere gli obiettivi programmati?
“Come docente non inseguo programmi scolastici, ma obiettivi relativi allo sviluppo di abilità e competenze. Il lavoro in classe, se ben svolto, è più che sufficiente”.
Si riferisce a un ordine di scuola particolare oppure pensa che il metodo possa andare bene dalla primaria alla secondaria di secondo grado? Lei dove insegna?
“Io insegno nella secondaria di primo grado, ma credo che questo metodo possa essere portato nella scuola di ogni ordine e grado”.
Come si trovano alle superiori gli alunni abituati a non avere compiti a casa alle medie?
“Questo dovrebbe chiederlo a loro. Io credo che non svolgere i compiti a casa, ma svolgerli a scuola, non sia sinonimo di impreparazione o incapacità di apprendimento. Alle superiori userei lo stesso metodo, lasciando i ragazzi liberi di approfondire a casa”.
Alunni suoi, di 12 anni, sanno distinguere un accento acuto da uno grave e il tutto senza mai dare nemmeno una riga da studiare per casa. Com’è possibile?
“Perché studiano a scuola. Perché sono attenti, prendono appunti e vengono continuamente sollecitati alla riflessione linguistica. L’accento non è una regola da studiare a casa ma una condizione della vocale che la rende aperta o chiusa. Questa consapevolezza fa la differenza. E forse anche perché sono stata allieva di Luca Serianni e i miei alunni non potrebbero non conoscere la distinzione fra gli accenti”.
Lei dice lo studio non dovrebbe essere mai un’imposizione perché lo studio ha reso felice lei. E’ sufficiente contare sul gusto della conoscenza da parte degli alunni?
“Non solo è sufficiente ma fondamentale. Lo studio, come diceva il mio già citato e amato maestro, serve per la vita. Il gusto della conoscenza schiude nuovi orizzonti, appunto, e deve essere il primo obiettivo di un insegnante. Se questo non accade, l’insegnante deve rivedere i suoi metodi”.
Lei afferma che i suoi alunni si assegnano dei compiti da soli. E’ così?
“Sì, capita. Preparano cartelloni, slide, acquistano libri che portano in classe, spinti dalla passione per la ricerca e l’approfondimento. Per me questo è un risultato eccezionale”.
Senta, se io studiassi la chitarra con un maestro, se non mi esercitassi durante la settimana – e molto, anche per conto mio – difficilmente imparerei un giorno a suonare lo strumento. Perché con la scuola dovrebbe funzionare diversamente?
“I miei alunni studiano anche da soli, soltanto che questo avviene a scuola e non a casa. Le lezioni prevedono ore di studio individuale e collettivo, con i vantaggi che ho esposto sopra. Ovviamente, nessuno vieta ai miei alunni di esercitarsi anche a casa. Ma questo deve avvenire fuori da una costrizione spesso sterile e non di rado perfino dannosa. Io guardo il risultato, e se il risultato raggiunge il livello di accettabilità o lo supera, per la quasi totalità dei casi e non solo per alcuni, ritengo il metodo valido”.
A che cosa imputa, dal suo osservatorio, la vera o presunta caduta degli apprendimenti registrata negli ultimi decenni e anche di recente?
“All’allontanamento della scuola dai bisogni e dagli stili di vita attuali. Il metodo scolastico è rimasto sostanzialmente immutato da decenni, con i libri di testo e le lezioni frontali. Ma la società è cambiata, subendo per esempio un’accelerazione. I nostri alunni sono cresciuti immersi in una comunicazione veloce fatta di tablet, Short Message Service, e immagini. Non sono abituati alla lettura lenta dei libri e all’ascolto passivo. In questo la scuola deve rinnovarsi stimolando per esempio il piacere della lettura, essenziale per la competenza linguistica scritta e orale. A tal proposito, ogni settimana dedico mezz’ora di lezione proprio alla lettura silenziosa e individuale. Ognuno, col libro che si è scelto, si mette comodamente a leggere. Chi vuole può anche togliersi le scarpe. Questo piace e crea partecipazione. Il libro viene poi portato a casa e la lettura può proseguire fuori dalla scuola, come di solito accade. Il segreto è capire i bisogni dell’allievo e soddisfarli attraverso una didattica mirata al raggiungimento degli obiettivi formativi”.
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Autore dell’articolo Vincenzo Brancatisano