Inviata da Nicola Tenerelli, Università degli Studi Aldo Moro, Bari- Più studenti mi hanno chiesto cosa ne penso su ciò che sta avvenendo nella striscia di Gaza. Ho accuratamente evitato di rispondere poiché è una questione complessa: lo faccio ora, anche se neppure in questa sede ho possibilità di essere esaustivo; inoltre, la querelle non può essere liquidata con velleità partigiane anche se, per tradizione, gli intellettuali italiani sono sempre stati legati alla causa palestinese.
Innanzitutto, consiglio di studiare la cartina geografica del Medioriente per comprendere lo scenario nel quale è collocato lo stato israeliano. In secondo luogo occorre una larvale conoscenza dei fatti almeno dal dopoguerra.
L’esodo dei palestinesi lo si ebbe già alla vigilia della risoluzione n. 181 dell’ONU del 1948, che definì la volontà di realizzare i due stati di Israele e Palestina in quel territorio che era stato sotto l’egida britannica; la risoluzione non fu accettata dagli arabi che misero mano alle armi ma vennero
sconfitti; gli israeliani occuparono oltre il 70% della Palestina.
Israele impedì la creazione dello stato palestinese e da quel momento nacque la resistenza dell’OLP, fatta di scaramucce e rappresaglie di confine.
Il 26 luglio 1956 l’esercito d’Israele assieme alle truppe anglo-francesi attaccò l’Egitto che aveva nazionalizzato il canale di Suez. L’ONU inviò in Egitto un corpo di interdizione, costringendo al ritiro le forze d’invasione. Allo Stato ebraico si riconosceva il diritto di utilizzo del porto di Elat.
A maggio 1967, l’Egitto bloccò il porto di Elat: gli israeliani risposero (5-10 giugno 1967, la guerra dei Sei giorni) occupando Gaza e il Sinai egiziano, la Cisgiordania e Gerusalemme giordane, gli altopiani del Golan siriani. L’ONU con la risoluzione 242 del 22 novembre 1967 ingiunse inutilmente a Israele di lasciare le “terre occupate”.
Il 6 ottobre 1973, durante la festività israeliana del kippur, Egitto e Siria tentarono di riconquistare militarmente i territori ma furono sconfitti; la risoluzione ONU n. 338 del 22 ottobre 1973 fermò i contendenti e fotografò la situazione territoriale.
Dal 1970 (il settembre nero) la Giordania si schierò apertamente contro l’OLP che aveva tentato di rovesciare la sua monarchia e che agiva con atti di terrorismo (memorabile, l’eccidio degli atleti israeliani durante le olimpiadi di Monaco).
A giugno 1975 in seguito ad accordi tra Israele, Egitto e Siria fu riaperto il Canale di Suez (giugno 1975), chiuso dalla guerra dei Sei giorni. Nel 1979 Egitto e Israele firmarono un accordo di pace.
Da quel momento Israele rispose ai continui attacchi degli hezbollah (il partito di Dio) dal fronte libanese e perseguì una politica di insediamenti urbani sulle terre occupate. L’ONU per molte volte (ultima la risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016) ha avvertito che “la creazione di insediamenti da parte di Israele nel territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, non ha validità legale” e ribadì che “il proseguimento delle attività di insediamento israeliano mette a repentaglio la realizzazione della soluzione a due Stati basata sui confini del 1967”.
Tali questioni, elencate sommariamente, non vengono in genere studiate. Ciò che resta maggiormente alla memoria è la storia dell’intifada che ha sempre avuto come teatro la città di Gerusalemme (sacra per tutte e tre le religioni monoteiste che hanno Yahveh-Dio-Allah in comune).
Dal 1987, i massmedia hanno rappresentato la lotta tra israeliani e palestinesi attraverso le immagini di ragazzi che lanciavano le pietre contro i soldati in assetto antisommossa, proiettili di gomma e lacrimogeni.
Come non simpatizzare per quei giovani-Davide che si battevano contro gli israeliani-Golia? A chi non era simpatico il palestinese Arafat che con Rabin voleva la pace, ma riuscì a imporre solo la moda della kefiah? Come si poteva non avversare l’israeliano Sharon che nel settembre del 2000 andò davanti alla moschea della Roccia di Gerusalemme, luogo dal quale Maometto sarebbe asceso in cielo, a provocare il mondo islamico?
In Italia, nei licei e università da allora si continua a restare legati a tale tradizionale confluenza culturale: Palestina è diventata sinonimo di libertà. Alla luce dei fatti, però, ci si deve rendere conto che la situazione storica e politica del medioriente è mutata.
Innanzitutto, occorre sapere che in Palestina il partito moderato Al Fatah, disponibile per quel dialogo che dovrebbe sancire il riconoscimento della Palestina come Stato, non è rappresentativo della maggioranza. La striscia di Gaza è retta dal governo degli estremisti di Hamas, sui quali convergono i denari soprattutto di Iran e Qatar (ma anche da Arabia, Russia e Unione Europea), soldi che dovrebbero servire per aiutare un’area tra le prime per densità di popolazione, oltre due milioni di persone su soli 350 chilometri quadrati, soldi che si trasformano in armi e tunnel difensivi.
La mattina del 7 ottobre 2023 – ancora durante il periodo di festa israeliana del kippur – l’attacco di Hamas è stato lanciato dalla Striscia di Gaza verso Israele con migliaia di razzi.
Contemporaneamente, i miliziani di Hamas oltrepassavano il confine israeliano attaccando un rave party di giovani nel deserto, uccidendo e prendendo ostaggi. Poi, l’assalto al villaggio israeliano di Kfar Aza, dove una settantina di miliziani di Hamas hanno decimato una comunità rurale vicino al
confine con Gaza, uccidendo anche decine di bambini, alcuni bruciati e decapitati.
Insomma, non siamo più di fronte alla ribellione di un popolo oppresso: non è più la guerra delle pietre.
Per troppa complessità, non si può discutere della strumentalizzazione che viene fatta della religione, oppio dei popoli come non mai; oppure, delle postazioni di missili posti in ospedali e scuole, usando come scudo i civili; della differenza tra sionismo e ebraismo; della congiuntura politica tra alcuni gruppi sunniti e sciiti; della rottura con l’occidente che ha fatto nascere Al Qaida- Isis e alimenta il terrorismo.
Occorre farsi alcune domande: perché dalla parte di Hamas c’è la Russia (che ha invaso l’Ucraina), la Cina (che minaccia l’indipendenza di Taiwan e prevarica gli Uiguri), l’Iran (che uccide i suoi giovani), la Turchia (che opprime curdi e armeni), la Corea del nord, la Cecenia…? Inneggiare alla Palestina è ancora inneggiare alla libertà? Doppia morale e dubbia moralità.
Agli studenti dico: prima di scendere in piazza per diventare altoparlanti di slogan posticci, studiate la Storia e fatevi una vostra opinione.
Fortunatamente, non serve che i giovani e gli intellettuali occidentali legati alla causa palestinese cambino idea; la loro azione mimetica è indispensabile: è necessario che essi continuino a protestare affinché non si giunga a strutturare un processo culturale di radicalizzazione occidentale tale da determinare i presupposti per uno scontro di civiltà. Forse questa affermazione è un po’ complessa ma credo che il ministro Valditara l’abbia compresa.
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