Patrizia Cavalli, la poetessa bambina che si innamorò di Kim Novak

Patrizia Cavalli, la poetessa bambina che si innamorò di Kim Novak

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di Emanuele Levi

La scrittrice raccontata da Emanuele Trevi: le interessava solo la libertà di essere ciò che si vuole. Ti aspettava sulla soglia con il suo modo inconfondibile di scrutarti, leggendo quella che definiva «l’anima facciale»

A pochi passi da Campo de’ Fiori, la casa di Patrizia Cavalli era una di quelle vecchie case del centro di Roma così intrise di tempo e stratificate di memorie che finiscono per assumere le caratteristiche del labirinto, del luogo puramente onirico, o ancora di quegli stravaganti musei barocchi che si chiamavano «gabinetti di curiosità». Vi si accedeva affrontando, con spirito alpinistico, una lunga e irregolare serie di ripide rampe di scalini di pietra consunta. Arrivati con il fiatone all’ultimo pianerottolo, c’era Patrizia ad aspettare sulla soglia, con la sua maniera inconfondibile di scrutarti e metterti a nudo, leggendo i segni di quella che una volta definì «l’anima facciale» come una fattucchiera avrebbe potuto fare con le linee della mano o un fondo di caffè. Esattamente come il suo stile poetico, che è una grande armonia di contraddizioni, Patrizia nelle sue relazioni con il prossimo era insieme ironica ed empatica, cinica e sentimentale. Col tempo, mi sono convinto che esercitasse un vero e proprio contagio psicologico: il suo individualismo e l’imprevedibile susseguirsi e accavallarsi dei suoi umori spiazzava l’interlocutore, finendo per portare anche lui sull’unico terreno che le interessava veramente, quello della singolarità, della libertà di essere ciò che si vuole e nient’altro.

Si potrà ben capire come, in un mondo letterario e artistico dove prevalgono le maschere e i giochi di ruolo, Patrizia Cavalli rappresentasse, agli occhi di molti, una sconcertante anomalia. È per questo motivo che le cene che organizzava da lei erano sempre, per un motivo o per l’altro, serate memorabili, spesso protratte fino alle ore piccole in conversazioni capaci di tirar fuori dai commensali tesori generalmente nascosti di umorismo, sincerità, intelligenza. Negli anni, avevo finito per attribuire alla casa stessa, con le sue innumerevoli stanze e stanzette infilate l’una dentro l’altra, il potere magico di rendere interessanti e seducenti anche persone che, incontrate altrove, avevo a malapena notato. Patrizia regnava sulla compagnia, facendo avanti e indietro tra la tavola e la mitica cucina decorata da una invidiabile collezione di frammenti di marmi pregiati romani. Era una cuoca sublime, imbattibile in quel fondamento della cucina che è l’arte di fare la spesa e trovare gli ingredienti giusti. E se si andava al ristorante, i suoi giudizi potevano essere spietati.

Il suo primo libro di poesie lo aveva pubblicato nel 1974 per Einaudi. Aveva ventisette anni, e come tanti artisti della Roma di allora, si era lasciata alle spalle un’infanzia e un’adolescenza in provincia (era nata a Todi nel 1947) che non sembrava suscitarle nessuna nostalgia. Il titolo di quell’esordio, Le mie poesie non cambieranno il mondo, poteva risultare già di per sé scandaloso, in un periodo così pervaso di ideologia ed estremismo politico ed estetico. Era, inoltre, un irriverente sberleffo a Elsa Morante (alla quale il libro è comunque dedicato) e al suo Mondo salvato dai ragazzini . In realtà, l’incontro con la Morante fu decisivo nella formazione del destino artistico e umano di Patrizia Cavalli. Ma sarebbe difficile parlare di una vera e propria influenza sul suo originalissimo stile lirico, che semmai, a volergli attribuire per forza dei debiti, risente molto di più della lezione di Sandro Penna e Giorgio Caproni. La verità è che la poesia di Patrizia Cavalli, fin dall’inizio, possiede la rara qualità dei classici, che danno sempre l’idea di essersi generati da se stessi, senza bisogno di suggestioni esterne.

Nel corso del tempo, via via che uscivano i nuovi libri, la cerchia dei lettori si è allargata in modo costante, fino all’ultimo Vita meravigliosa, uscito nel 2020, quando ormai la malattia aveva preso il sopravvento, separandola forzatamente dai piaceri della vita che pervadono i suoi versi. Primo fra tutti, quella condizione di perenne disponibilità all’innamoramento, alle montagne russe della passione, che nessuno ha saputo descrivere con tanta enciclopedica arguzia, con tanta consapevolezza che «il cuore non è mai al sicuro». D’improvviso l’amore torna sempre, si legge in un’altra poesia, «come fosse un raffreddore». I detrattori della poesia di Patrizia Cavalli (ogni vera grandezza comporta anche qualche accanito diniego) le hanno rimproverato proprio una ipotetica angustia di prospettive e una monotonia che deriverebbero proprio da questo costante ripiegamento sui propri sentimenti e sugli umori che ne derivano. Ma basta abbandonarsi a una qualsiasi delle sue raccolte per accorgersi che questo incantevole diarismo è tutt’altro che una forma di limitazione. Non è mai l’occasione esistenziale in sé ad avere un qualche valore poetico, ma il rapporto che Patrizia Cavalli sapeva costruire tra l’occasione e la perfezione della forma, con la ricchezza delle sue soluzioni metriche e le risorse della rima, che sboccia alla fine dei versi come un sigillo di verità (un solo esempio memorabile, tra le centinaia che potrei citare: «Vita meravigliosa/sempre mi meravigli/che pure senza figli/mi resti ancora sposa»).

Ecco il fecondo paradosso che innerva da un capo all’altro l’opera di questa scrittrice così libera e inclassificabile: da una parte c’è una condizione di perenne disponibilità all’avventura erotica e sentimentale; dall’altra questa materia intima così incandescente e irragionevole viene sapientemente calata nei freddi stampi dei ritmi, delle strofe, delle rime. Perché è vero che l’anima innamorata, insaziabile e tormentata da ogni forma di mancanza, si lamenta sempre; ma a contare davvero è la bellezza del lamento, che lo trasforma nella più dolce delle musiche. È come una forma di perpetua auto-terapia che non produce guarigioni, ma si lascia dietro una scia iridescente di illuminazioni provvisorie, piccoli gorghi luminosi che punteggiano l’impetuoso fluire della vita. Non si può negare che il dolore esista, ma forse la poesia è un modo per scartarne l’urto diretto, l’ironica possibilità di non identificarsi completamente con la propria sofferenza. «Amor che fa la rima», infatti, «sta un po’ meglio di prima». Quanto più si va a fondo nella conoscenza di se stessi, tanto più bisognerà imparare anche a guardarsi da fuori, e sorridere di ciò che si è scoperto. È una poetica, ma nello stesso tempo è una forma di vita, un modo di stare al mondo.

La persona, per come l’ho conosciuta, e l’opera coincidono con impressionante precisione, nel caso di Patrizia Cavalli, tanto che riesce impossibile stabilire un confine, il punto esatto in cui l’una diventa l’altra. Aveva cominciato a cinque anni, con una poesia d’amore per Kim Novak, ispirata dalla visione di un film. Se quello fu il primo amore, c’è da scommettere che fu anche il primo dolore, e quei versi affidati a un quaderno di scuola furono il primo, omeopatico rimedio. Anche quando la malattia aggredì la memoria, Patrizia li ricordava e li citava volentieri, come per abbeverarsi ancora una volta a un’origine, a un batticuore inaugurale. «Amor che rima fa/tanto male non sta».

7 agosto 2022 (modifica il 7 agosto 2022 | 23:02)

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, 2022-08-07 21:11:00, La scrittrice raccontata da Emanuele Trevi: le interessava solo la libertà di essere ciò che si vuole. Ti aspettava sulla soglia con il suo modo inconfondibile di scrutarti, leggendo quella che definiva «l’anima facciale», Emanuele Levi

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