di Gian Antonio StellaL’«affarone» del gas fu pagato a caro prezzo: 84 morti. Gli abitanti della zona e l’altolà a Meloni: contraria all’«ambientalismo ideologico», si ricorda il “no” al referendum 2016? Mettete caso di vivere in una terra tre metri sotto al livello del mare e d’aver già pagato caro troppi studi sballati sull’«affarone» del gas con la più disastrosa alluvione della storia d’Italia: vi fidereste di nuove trivelle in zona? Dal Polesine sale un coro: no. Ed è un coro che, come spiega il Corriere del Veneto va oltre le appartenenze politiche, le tessere di partito, la fedeltà a un governo «amico» appena votato. Men che meno c’entra l’«ambientalismo ideologico» additato da Giorgia Meloni in Parlamento come la causa prima di ogni blocco a questo o quel progetto: è il mondo in larga parte di centrodestra, qui, a dire no. Al punto di scatenare le ironie di chi rinfaccia a lei, la leader di Fratelli d’Italia, d’aver chiamato al voto i suoi elettori contro nuove trivellazioni («per il nostro ambiente e la difesa del nostro mare») nel referendum di sei anni fa assieme al suo alleato trivellante d’oggi, Matteo Salvini, dotato allora di felpa «No trivelle!». Il punto è che i polesani non hanno mai dimenticato quella catastrofe del 1951. Un novembre. Come oggi. Le acque del fiume madre, il maestoso placido Po, che allagarono furibonde l’intero Polesine, gli argini saltati, la rotta di Occhiobello, le vacche e i cavalli col collo allungato nel fango a cercare l’aria, i gatti e le galline sugli alberi, i nonni e i bambini rifugiati sui tetti, il vecchio camion stracarico di famiglie bloccato nel buio totale sotto un diluvio in mezzo alla melma, l’acqua che saliva e saliva fino a inghiottire ottantaquattro poveretti. Come possono dimenticare quello che molti avevano previsto e poi sarebbe stato accertato e cioè che proprio l’estrazione dal sottosuolo del gas, cominciata nel 1938, era stata la causa dell’abbassamento dell’area colpita dalla piena fino ad avere secondo la Croce Rossa internazionale l’«ampiezza catastrofica più grande del lago di Ginevra»? Non fu l’«ambientalismo ideologico» a far chiudere allora i pozzi. Furono, come ricostruisce documento su documento Gianluigi Ceruti, il «padre» della legge del 1991 sui parchi e le aree protette, Fanfani e Zaccagnini e i democristiani e i moderati che allora dominavano l’Italia e a un certo dovettero prender atto delle evidenze denunciate da tecnici che tutto erano tranne che teste calde comunistoidi. Basti rileggere la denuncia nel 1947 dell’ingegner Attilio Scicli, che disse in faccia ai «metanieri» a convenuti a Ferrara di andarci piano col pompaggio del gas nell’area: «Si parla di portare la produzione in tale regione dai 130/150 mila metri cubi al giorno a un milione al giorno. La sottrazione di una massa imponente di acqua, indubbiamente fossile, potrebbe causare la costipazione degli strati porosi e conseguenti possibili cedimenti del soprassuolo». Ovvio: dai circa 4.000 pozzi, spiega Ceruti, «veniva estratto il metano emulsionato con acqua salsa che veniva espulsa in basso e riversata in canali e fiumi». E via via il suolo si era abbassato di 170 centimetri fino ad arrivare a due metri e poi ancora giù giù giù… Finché nel 1958, sette anni dopo la Grande Piena, il governo decise «limitazioni e divieti, temporanei e permanenti, delle estrazioni del gas metano nel territorio del Delta». Scelte applicate due anni dopo a 26 centrali metanifere con circa 500 pozzi, poi altre 43… Le parole definitive arrivarono col rapporto dell’ispettore generale del Genio civile Luigi Pavanello: il rallentamento «della velocità di affondamento nella zona sperimentale dopo la sospensione» dei pozzi suggeriva di estendere «l’esperimento a una zona più vasta per avere la conferma delle cause del pauroso abbassamento verificatosi fino ad oggi» causa «principale se non determinante del fenomeno del bradisismo». Nel gennaio 1961 il capo del governo Fanfani e il ministro dei Lavori pubblici Zaccagnini decisero: basta. Certo, la produzione aveva sfondato i 290 milioni di metri cubi di gas. Faceva gola. Ma i rischi erano troppo alti. Sette anni dopo Il Gazzettino scriverà: «Ventiquattro alluvioni in nove anni. E un’altra nel 1966. I tre lustri che vanno dal 1951 al 1966 vengono ricordati per le sofferenze e l’allontanamento di ben 150.000 polesani dalla loro terra». Va da sé che quando il nuovo governo, pressato dalla crisi, ha deciso di puntare sul ritorno delle trivelle (Giorgia Meloni alla Camera: «I nostri mari possiedono giacimenti di gas che abbiamo il dovere di sfruttare appieno») i polesani che non hanno mai colmato il vuoto enorme di chi emigrò, sono saltati su. Sindaci, assessori, amministratori pubblici. Senza distinzione di colore. Meloniani compresi. Certo, i più ottimisti come Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, assicurano che «non c’è pericolo», che «non si sono mai registrati fenomeni di pericolosità negli ultimi 50 anni» e che «noi siamo fermi e la Croazia trivella di fronte alle nostre coste. È come se avessimo un bicchiere con due cannucce, ma si succhia solo da una di esse». Al di là del fatto che la costa croata è rocciosa e la nostra sabbiosa, il geologo Marco Bondesan concede che le tecniche sono cambiate e con le «trappole tettoniche a profondità notevoli (migliaia di metri) la subsidenza è molto più ridotta». Ma recentemente, dice, alcune compagnie hanno proposto estrazioni da «trappole stratigrafiche» situate nei sedimenti sciolti sovrastanti, situati a profondità molto minori, e in questi casi si potrebbero temere effetti simili a quelli di prima del 1964». C’è da fidarsi? Mah… Si fida poco, ad esempio, il direttore del Consorzio di bonifica polesano Giancarlo Mantovani che spiega come i danni del passato sono stati tali che «pressoché tutto il territorio è sotto di tre metri se non di quattro col risultato che noi dobbiamo “sollevare”, cioè pompare e tirar su 400 milioni di metri cubi d’acqua l’anno: 150 di pioggia, 250 di infiltrazioni marine. Quanto agli studi rassicuranti, io dei modelli matematici non mi fido più. Basti vedere com’è finita al Lido di Dante, vicino a Ravenna. E dicevano che non c’erano problemi…». Ancor meno si fida Moreno Gasparini, il presidente del Parco Delta del Po che ha fatto ricorso al Tar contro la Po Valley, una multinazionale australiana portatrice di un progetto per gli ambientalisti «ad alto rischio»: «Non capisco perché insistere sul gas invece che sulle energie alternative. Stanno cercando di salvare dalle acque la basilica di San Marco e noi, a trenta chilometri, insistiamo sul gas?» E già, perché anche Venezia, se qualcosa va storto, rischia grosso. I dati dell’Intergovernmental Panel Climate Change rielaborati dall’ingegnere idraulico Antonio Rusconi, già segretario dell’Autorità del Bacino del Veneto, come ha riassunto mesi fa Alberto Vitucci, dicono che il livello del mare aumenta negli ultimi tempi di 5,61 millimetri l’anno, contro una media di poco più di un millimetro nel secolo e mezzo precedente. E aumenta anche la subsidenza, cioè lo sprofondamento del suolo, di 1,9 millimetri l’anno. E i risultati già si vedono. Nell’ultimo decennio, le alte maree eccezionali superiori a 110 centimetri sono state 95, contro le 54 del decennio precedente. Negli anni Ottanta erano soltanto 27, negli anni Cinquanta 13…». C’è da sperare che calino? Boh… 8 novembre 2022 (modifica il 8 novembre 2022 | 22:06) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-11-08 21:08:00, L’«affarone» del gas fu pagato a caro prezzo: 84 morti. Gli abitanti della zona e l’altolà a Meloni: contraria all’«ambientalismo ideologico», si ricorda il “no” al referendum 2016?, Gian Antonio Stella