Il progetto di Giorgia Meloni di trasformare la vecchia «destra sociale» in un partito conservatore europeo, come ha rilevato Paolo Macry su queste colonne mercoledì scorso, «è destinato a trovare nel Mezzogiorno un ambiente poco favorevole e sembra fatalmente destinato a camminare sulle gambe delle regioni centro-settentrionali». Non è una sorpresa. È stato chiaro fin dall’inizio della campagna elettorale che il voto avrebbe rafforzato e allungato l’egemonia nel Paese del blocco sociale a trazione settentrionale, con un Sud ancora più debole e intrappolato nell’ormai trentennale condizione di subalternità politica. La scelta (legittima) della Meloni è stata compiuta non ora, ad elezioni vinte, ma costruita a carte scoperte prima della sfida elettorale, quando la leader di un partito proveniente da una tradizione centralista e statalista, che in passato aveva avuto un radicamento territoriale più forte al Sud, nel pubblico impiego, difensore di politiche pubbliche anche assistenziali, ha virato verso il Nord. Questo per rispondere prioritariamente alle istanze provenienti dalla società settentrionale, dai suoi ceti produttivi, dal blocco sociale che ha come blocco politico di riferimento il centrodestra. Anche a costo di perdere consensi al Sud, come è avvenuto, e mettendo in conto reazioni negative nei territori meridionali. Si tratta, ora, di capire fino a che punto si spingerà il nuovo governo, per rispettare gli impegni con il Nord, nell’attuazione di misure e di politiche che potrebbero far davvero male al Mezzogiorno, a cominciare dall’autonomia differenziata, dai tagli al reddito di cittadinanza, dall’ipotizzata «flat tax» e dalle annunciate, seppur limitate, modifiche al Pnrr che potrebbero ulteriormente rallentare l’attuazione dei progetti nelle regioni meridionali. Il rischio di lacerare, a colpi di strappi, quei sottili fili che tengono ancora unito il Paese dovrebbe essere ben valutato da palazzo Chigi. Il Sud può rappresentare il vero tallone d’Achille del nuovo esecutivo. Di converso, come è stato giustamente osservato da più parti, la fase nuova aperta dal voto, segnando un ulteriore rafforzamento dell’asse politico che ruota intorno all’egemonia settentrionale, può spalancare nel Mezzogiorno una prateria all’opposizione. Ma quale opposizione? Con quale profilo e con quali prospettive? Qui sta il punto. Il Pd, invece di attardarsi sulle sterili dispute nominalistiche di premier e Ministeri, o di cercare il surrogato del fascismo in ogni frase della Meloni e dei dirigenti di FdI, farebbe bene a prendere piena e diffusa consapevolezza – anche nei gruppi dirigenti del partito settentrionale – di questa opportunità. E porla al centro della fase congressuale. Per riflettere su come coglierla, con quale progetto, linea politica, alleanze e leadership, nazionale e territoriali. Dovrebbe diventare questa la sfida principale del prossimo gruppo dirigente del Nazareno se si ha ancora l’ambizione di essere l’asse portante dell’opposizione e di un progetto alternativo di governo. E, soprattutto, se non si vuole soccombere all’Opa sempre più ostile lanciata dal M5S che, piaccia o no, ha avviato un percorso di rinnovamento qualche anno fa e che, nonostante una sconfitta dalle dimensioni catastrofiche, appare oggi più tonico nella leadership e più credibile nella difesa (monotematica) di alcuni segmenti della società meridionale. Non è solo una possibilità. È una strada obbligata per il Pd. L’intero Pd. Il voto del Nord ha confermato che, al di là dell’alternanza delle leadership nel centrodestra, quei territori sono difficilmente contendibili dal punto di vista elettorale, almeno nel breve e medio periodo. È, invece, nel Mezzogiorno e sul Mezzogiorno che il Pd può trovare terreno fertile per rigenerarsi e rilanciarsi, ricostruendo un profilo riformista, alternativo e di governo. Ed è dal Mezzogiorno che il Pd può arginare e provare a spezzare quel blocco sociale a trazione settentrionale che detta l’agenda al Paese da 30 anni e che utilizza il partito quando serve, per stabilizzare il quadro politico, e lo scarica, fino a umiliarlo, non appena ne può fare a meno. Senza trasformarsi, sia chiaro, in un partito territoriale contro il Nord, tenendosi anzi a debita distanza da alleanze costruite esclusivamente in chiave difensiva e sul minimo comune denominatore del «no a tutto», dalle rituali battaglie di retroguardia con il solo obiettivo di ridurre i danni, da ammucchiate indistinte con dentro le peggiori pulsioni del sudismo e un rivendicazionismo dal respiro corto. Per questo, non serve – come alcuni «sinistrati» consigliano – la sommatoria delle sigle di opposizione, tenere insieme alla rinfusa interessi, micro-interessi e corporativismi con il solo collante del «contro»; puntare su confuse e contraddittorie intese politico-elettorali senza una visione alternativa costruita sul «comune sentire» e capace di parlare a tutta l’Italia. Se così fosse, avremmo un esito già scritto: tra cinque anni, il Sud continuerà a essere subalterno all’egemonia del blocco sociale del Nord. Anche in caso di ribaltoni elettorali. C’è bisogno, dunque, di coraggio da parte del Pd. Nei contenuti e nella scelta degli uomini. Ai vertici nazionali e territoriali. Lo stato del partito al Sud, si sa, è disastroso. Letta, come i suoi predecessori, si è tappato le orecchie di fronte ai ripetuti appelli a intervenire, da dentro e da fuori il partito, per spezzare l’asfissiante melassa dei blocchi di potere costruiti, con metodi spesso indegni e spaccati di rara volgarità, intorno ai notabili locali. Primi fra tutti, i governatori di Campania e Puglia. Se il Pd vuole cogliere l’opportunità offerta dalla nuova fase, deve sciogliere questi nodi. Innanzitutto, nelle regioni meridionali che governa da anni. E chiedersi: può e deve ancora presentarsi con i volti, i metodi, le (in)culture politiche e istituzionali, le visioni e i risultati di governo di personaggi come De Luca ed Emiliano? Può e deve ancora puntare su raccoglitori di voti di qualsiasi provenienza, anche grazie all’utilizzo di un falso e spregiudicato civismo? Continuare a essere il collettore di interessi e micro-interessi su scala locale alimentati dalla spesa, anzi dalla dissipazione delle risorse pubbliche, senza tra l’altro che alcuno dei principali settori di competenza regionale – sanità, trasporti, rifiuti – mostri miglioramenti visibili (anzi!)? Può e deve ancora appiattirsi nella difesa a oltranza dei propri governi regionali, anche quando sono palesi i bilanci fallimentari? Può e deve lasciare nelle posizioni chiave del partito dirigenti o commissari fantocci, fedelissimi e, in alcuni casi, familiari piazzati dai governatori? E, infine, possono mai risultare credibili nell’imminente battaglia sull’autonomia differenziata governatori come De Luca ed Emiliano, o ex ministri, che negli anni passati hanno flirtato con i sostenitori del progetto e che oggi si ergono a irriducibili paladini del Sud, autocandidandosi a coordinatori meridionali del fronte di opposizione al nuovo governo? Se il congresso non partirà da qui, sarà un altro inutile rituale. E un nuovo regalo al centrodestra. 29 ottobre 2022 | 08:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-10-29 06:43:00, Il progetto di Giorgia Meloni di trasformare la vecchia «destra sociale» in un partito conservatore europeo, come ha rilevato Paolo Macry su queste colonne mercoledì scorso, «è destinato a trovare nel Mezzogiorno un ambiente poco favorevole e sembra fatalmente destinato a camminare sulle gambe delle regioni centro-settentrionali». Non è una sorpresa. È stato chiaro fin dall’inizio della campagna elettorale che il voto avrebbe rafforzato e allungato l’egemonia nel Paese del blocco sociale a trazione settentrionale, con un Sud ancora più debole e intrappolato nell’ormai trentennale condizione di subalternità politica. La scelta (legittima) della Meloni è stata compiuta non ora, ad elezioni vinte, ma costruita a carte scoperte prima della sfida elettorale, quando la leader di un partito proveniente da una tradizione centralista e statalista, che in passato aveva avuto un radicamento territoriale più forte al Sud, nel pubblico impiego, difensore di politiche pubbliche anche assistenziali, ha virato verso il Nord. Questo per rispondere prioritariamente alle istanze provenienti dalla società settentrionale, dai suoi ceti produttivi, dal blocco sociale che ha come blocco politico di riferimento il centrodestra. Anche a costo di perdere consensi al Sud, come è avvenuto, e mettendo in conto reazioni negative nei territori meridionali. Si tratta, ora, di capire fino a che punto si spingerà il nuovo governo, per rispettare gli impegni con il Nord, nell’attuazione di misure e di politiche che potrebbero far davvero male al Mezzogiorno, a cominciare dall’autonomia differenziata, dai tagli al reddito di cittadinanza, dall’ipotizzata «flat tax» e dalle annunciate, seppur limitate, modifiche al Pnrr che potrebbero ulteriormente rallentare l’attuazione dei progetti nelle regioni meridionali. Il rischio di lacerare, a colpi di strappi, quei sottili fili che tengono ancora unito il Paese dovrebbe essere ben valutato da palazzo Chigi. Il Sud può rappresentare il vero tallone d’Achille del nuovo esecutivo. Di converso, come è stato giustamente osservato da più parti, la fase nuova aperta dal voto, segnando un ulteriore rafforzamento dell’asse politico che ruota intorno all’egemonia settentrionale, può spalancare nel Mezzogiorno una prateria all’opposizione. Ma quale opposizione? Con quale profilo e con quali prospettive? Qui sta il punto. Il Pd, invece di attardarsi sulle sterili dispute nominalistiche di premier e Ministeri, o di cercare il surrogato del fascismo in ogni frase della Meloni e dei dirigenti di FdI, farebbe bene a prendere piena e diffusa consapevolezza – anche nei gruppi dirigenti del partito settentrionale – di questa opportunità. E porla al centro della fase congressuale. Per riflettere su come coglierla, con quale progetto, linea politica, alleanze e leadership, nazionale e territoriali. Dovrebbe diventare questa la sfida principale del prossimo gruppo dirigente del Nazareno se si ha ancora l’ambizione di essere l’asse portante dell’opposizione e di un progetto alternativo di governo. E, soprattutto, se non si vuole soccombere all’Opa sempre più ostile lanciata dal M5S che, piaccia o no, ha avviato un percorso di rinnovamento qualche anno fa e che, nonostante una sconfitta dalle dimensioni catastrofiche, appare oggi più tonico nella leadership e più credibile nella difesa (monotematica) di alcuni segmenti della società meridionale. Non è solo una possibilità. È una strada obbligata per il Pd. L’intero Pd. Il voto del Nord ha confermato che, al di là dell’alternanza delle leadership nel centrodestra, quei territori sono difficilmente contendibili dal punto di vista elettorale, almeno nel breve e medio periodo. È, invece, nel Mezzogiorno e sul Mezzogiorno che il Pd può trovare terreno fertile per rigenerarsi e rilanciarsi, ricostruendo un profilo riformista, alternativo e di governo. Ed è dal Mezzogiorno che il Pd può arginare e provare a spezzare quel blocco sociale a trazione settentrionale che detta l’agenda al Paese da 30 anni e che utilizza il partito quando serve, per stabilizzare il quadro politico, e lo scarica, fino a umiliarlo, non appena ne può fare a meno. Senza trasformarsi, sia chiaro, in un partito territoriale contro il Nord, tenendosi anzi a debita distanza da alleanze costruite esclusivamente in chiave difensiva e sul minimo comune denominatore del «no a tutto», dalle rituali battaglie di retroguardia con il solo obiettivo di ridurre i danni, da ammucchiate indistinte con dentro le peggiori pulsioni del sudismo e un rivendicazionismo dal respiro corto. Per questo, non serve – come alcuni «sinistrati» consigliano – la sommatoria delle sigle di opposizione, tenere insieme alla rinfusa interessi, micro-interessi e corporativismi con il solo collante del «contro»; puntare su confuse e contraddittorie intese politico-elettorali senza una visione alternativa costruita sul «comune sentire» e capace di parlare a tutta l’Italia. Se così fosse, avremmo un esito già scritto: tra cinque anni, il Sud continuerà a essere subalterno all’egemonia del blocco sociale del Nord. Anche in caso di ribaltoni elettorali. C’è bisogno, dunque, di coraggio da parte del Pd. Nei contenuti e nella scelta degli uomini. Ai vertici nazionali e territoriali. Lo stato del partito al Sud, si sa, è disastroso. Letta, come i suoi predecessori, si è tappato le orecchie di fronte ai ripetuti appelli a intervenire, da dentro e da fuori il partito, per spezzare l’asfissiante melassa dei blocchi di potere costruiti, con metodi spesso indegni e spaccati di rara volgarità, intorno ai notabili locali. Primi fra tutti, i governatori di Campania e Puglia. Se il Pd vuole cogliere l’opportunità offerta dalla nuova fase, deve sciogliere questi nodi. Innanzitutto, nelle regioni meridionali che governa da anni. E chiedersi: può e deve ancora presentarsi con i volti, i metodi, le (in)culture politiche e istituzionali, le visioni e i risultati di governo di personaggi come De Luca ed Emiliano? Può e deve ancora puntare su raccoglitori di voti di qualsiasi provenienza, anche grazie all’utilizzo di un falso e spregiudicato civismo? Continuare a essere il collettore di interessi e micro-interessi su scala locale alimentati dalla spesa, anzi dalla dissipazione delle risorse pubbliche, senza tra l’altro che alcuno dei principali settori di competenza regionale – sanità, trasporti, rifiuti – mostri miglioramenti visibili (anzi!)? Può e deve ancora appiattirsi nella difesa a oltranza dei propri governi regionali, anche quando sono palesi i bilanci fallimentari? Può e deve lasciare nelle posizioni chiave del partito dirigenti o commissari fantocci, fedelissimi e, in alcuni casi, familiari piazzati dai governatori? E, infine, possono mai risultare credibili nell’imminente battaglia sull’autonomia differenziata governatori come De Luca ed Emiliano, o ex ministri, che negli anni passati hanno flirtato con i sostenitori del progetto e che oggi si ergono a irriducibili paladini del Sud, autocandidandosi a coordinatori meridionali del fronte di opposizione al nuovo governo? Se il congresso non partirà da qui, sarà un altro inutile rituale. E un nuovo regalo al centrodestra. 29 ottobre 2022 | 08:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,