Petrolio, l’Opec il patto ostile tra Putin e l’Arabia Saudita (a nostre spese)

Whatever it takes

di Federico Fubini10 ott 2022

Quello che vedete sotto è il prezzo del Brent nell’ultima settimana, dopo un taglio di due milioni di barili deciso lunedì dall’Opec+. Sapete già cosa significa: prezzi del greggio più alti, potenzialmente più inflazione nei nostri Paesi, dunque una stretta monetaria più aggressiva da parte della Federal Reserve e della Banca centrale europea su un’economia (specialmente l’area euro) in cui gli indici segnalano già un ingresso in recessione e in cui i governi si dissanguano – a debito – per proteggere almeno in parte famiglie e imprese dai costi stellari delle bollette e del carburante.

Quello dell’Opec è un sostanzioso taglio di produzione pari al 2% del consumo mondiale, benché il Brent fosse già non lontano dai cento dollari al barile, ancora sopra ai livelli di inizio anno e l’Europa fosse già nel pieno del peggiore choc energetico da mezzo secolo.

La regia

È un taglio, guidato dall’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman e appoggiato da Putin, voluto dall’Opec a quattro settimane dalle elezioni di mid-term in cui Joe Biden si gioca proprio sul costo del carburante la praticabilità del suo secondo biennio alla Casa Bianca. Ed è un taglio infine che fa salire i prezzi del petrolio di oltre il 10% – specificamente – a due mesi dall’entrata in vigore del «prce cap» del G7: il tetto al prezzo preteso dall’Occidente su tutto il petrolio russo venduto al resto del mondo. La deliberazione dell’Opec+ è arrivata in un incontro a Vienna dove i ministri dei dodici Paesi hanno deciso in via straordinaria di vedersi personalmente. Il russo Alexander Novak, vicepremier e lui stesso sotto sanzioni americane, ne ha approfittato per lanciare da Vienna la sua minaccia incrociata: Mosca taglierà le forniture, ha detto, a qualunque Paese dovesse accettare il tetto al prezzo del petrolio russo proposto dal G7.

La reazione

La Casa Bianca ha reagito malissimo: «È chiaro che l’Opec+ si sta allineando alla Russia», ha tagliato corto la portavoce di Biden. Il presidente democratico vive la mossa di Bin Salman come una pugnalata alla schiena, un voto del giovane e efferato principe saudita per insediare un repubblicano alla Casa Bianca fra due anni: sia esso Donald Trump o una sua versione in apparenza più razionale, incarnata dall’italo-americano della Florida Ron DeSantis. Non sono un esperto di petrolio, ma ho l’impressione che la chiave di questo scontro sia ancora una volta proprio nella guerra di Putin. Sempre di più, sta diventando un conflitto economico internazionale la cui posta va oltre il controllo dell’Ucraina. Nella parte che segue di questa newsletter provo dunque a spiegarvi la concatenazione di cause ed effetti. Provo a spiegare perché questo taglio di produzione mi sembra la risposta dell’Opec al tetto al prezzo del petrolio russo voluto dal G7 che, a sua volta, è la reazione degli Stati Uniti all’embargo europeo contro il greggio di Mosca in vigore a partire dal primo gennaio prossimo.

Le regole che non ci sono

L’invasione dell’Ucraina ha innescato un effetto domino che mette a nudo l’assenza di regole nell’economia mondiale, accelera la fine di un trentennio di globalizzazione commerciale pacifica ed è destinata a riscrivere la geografia del potere sulle materie prime più strategiche. Dovessi esprimerlo con una formula, direi così: la guerra di Putin sta provocando uno scontro fra un cartello di compratori (noi occidentali) e un cartello di venditori di energia fossile (l’Opec più la Russia). È una lotta in cui ciascuna delle due parti cerca di piegare l’altra con le armi della brutale forza economica, senza alcun tentativo di compromesso. Ma andiamo con ordine. Dall’inizio della guerra, la Russia ha incassato quasi 200 miliardi di euro dalla vendita di energia fossile; il gas ha attratto gran parte dell’attenzione, ma il petrolio ha attratto gran parte delle entrate dal resto del mondo: dal giorno dell’invasione in Ucraina il 61,5% dei ricavi da idrocarburi è venuto a Mosca dal greggio e solo il 31% dal metano. Persino per la sola Europa l’import di petrolio russo è superiore in valore all’import di gas. Poiché le entrate fiscali da energia fanno circa il 40% del bilancio pubblico russo, per fermare la macchina da guerra di Putin diventa indispensabile ostacolare la sua macchina da esportazione di petrolio. Non ci sono alternative.

L’embargo dell’Unione

L’Unione europea ha iniziato a farlo con l’embargo che entrerà in vigore da gennaio:con poche, motivate eccezioni, in Europa diventa illegale comprare greggio da Mosca. Ma il sacrificio potrebbe essere inutile se alle aziende di Stato di Putin fosse concesso di dirottare le esportazioni via nave, semplicemente, verso altre destinazioni. Già da questo autunno gli acquisti di idrocarburi russi da parte di Cina e India sono infatti vistosamente saliti: per la prima le importazioni sono passate da 150 fino a quasi 230 milioni medi al giorno, per la seconda da 20 fino a oltre 90 milioni medi al giorno. Per questo l’America si è inserita attraverso il G7 (che riunisce anche Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Canada) con l’idea del «price cap»: il Gruppo dei sette grandi dell’Occidente fissa un tetto ridotto al petrolio russo, in modo che qualunque Paese che paghi i russi di più si trova automaticamente espulso dai mercati americani. In sostanza, è lo stesso sistema oggi applicato per l’Iran: se per esempio una banca italiana facesse affari con un’impresa di Teheran, perderebbe immediatamente accesso a Wall Street. Non auspicabile.

Chi blocca chi

Nello specifico, questa è una misura contro la Russia da parte di sette Paesi che pesano per circa metà dell’economia mondiale. Ma questo è anche il primo grande tentativo del e superpotenze liberali – quelle che hanno dato forma alla globalizzazione degli ultimi trent’anni – di costituire un cartello dei compratori su una materia prima strategica. È un precedente odiatissimo, per i Paesi produttori di quelle materie prime. Visto dall’Opec, oggi può valere contro Mosca ma domani potrebbe colpire l’Arabia Saudita o qualunque altro Paese del cartello dei venditori. E visto dal resto del mondo, oggi il cartello dei compratori si applica al greggio ma domani potrebbe applicarsi al litio, alle terre rare, al cobalto o a qualunque altro minerale controllato dalla Cina ed essenziale per la rivoluzione delle fonti rinnovabili o dell’auto elettrica. Perciò, credo, la reazione dell’Opec è stata così violenta. Perciò è stata così favorevole a Putin. È in corso un tentativo di sottomissione dei consumatori di energia da parte dei produttori di essa.

Gli effetti sui tassi

Le conseguenze negative non tarderanno e saranno, anch’esse, schizofreniche: le grandi banche centrali occidentali alzeranno i tassi ancora di più per contrastare l’inflazione che ne deriva, mentre i governi occidentali faranno ancora più deficit e debito per indennizzare i loro elettori dall’impatto del caro-energia. La settimana di incontri del Fondo monetario si apre dunque all’insegna del grande disordine mondiale. Non solo produttori e consumatori di fonti fossili sono in guerra economica fra loro. Anche alcuni consumatori possono esserlo con altri, dato che gli Stati Uniti non escludono più di limitare il loro export di greggio al resto del mondo (sono oggi i terzi esportatori mondiali dopo sauditi e russi). E nei nostri stessi Paesi, anche banchieri centrali e politici spingono con le loro politiche economiche in direzioni opposte: i primi cercano di fare politiche restrittive, i secondi espansive. Something’s gotta give, dicono gli americani. Qualcuno o qualcosa, da qualche parte, a un certo punto deve cedere. La settimana degli Annual Meetings dell’FMI farà sicuramente un po’ di luce. E noi ne riparleremo lunedì prossimo. Buona settimana.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente sulle newsletter di Federico Fubini su Corriere.it. Per riceverla, ci si iscrive direttamente dal sito, dalla pagina delle newsletter: basta aprire la finestra «Whatever it Tak€s» e cliccare su iscriviti.

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, 2022-10-10 12:43:00, Il taglio della produzione da 2 milioni di barili farà salire i prezzi del greggio, alzando ancora di più il rischio di inflazione e creando nuovi problemi per le nostre economie, Federico Fubini

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